Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili n. 11833/2013 – Il dipendente pubblico non può fare l’avvocato anche se è in part time –
Le cosiddette “liberalizzazioni” non hanno eliminato il divieto per il dipendente pubblico in part time di prestare nel tempo libero la propria opera come avvocato. Con questa motivazione, le Sezioni unite delle Cassazione, sentenza 11833/2013, hanno scritto la parola fine su di una annosa questione che si trascina dal 2003, quando la legge 339 ha reintrodotto il divieto.
Respinto, dunque, il ricorso di un dipendente del comune Trapani che originava dalla impugnazione della delibera con la quale il locale Consiglio dell’ordine aveva disposto la sua cancellazione dall’albo per incompatibilità (ex lege n. 339/2003).
Con la decisione di oggi, il Supremo Collegio ha ritenuto “di dover escludere una abrogazione tacita delle disposizioni della legge n. 339/2003 per effetto della normativa sopravvenuta” e cioè le cosiddette liberalizzazioni (Dl 138/2011 convertito dalla legge 148/2011), “per il rilievo decisivo ed assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente”.
“La legge n. 339/2003 – prosegue la sentenza – è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della PA. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.); in particolare la suddetta disciplina mira ad evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della PA, ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 della Costituzione (obbligo di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione) non è poi facilmente conciliabile con la professione forense, che ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni”.
E la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 390/2006, aveva rilevato che “il divieto ripristinato dalla legge n. 339/2003 è coerente con la caratteristica peculiare della professione forense dell’incompatibilità con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario” (art. 3 del Rdl n. 1578/1933, Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).
Ma anche la “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, la legge 247/2012, “conferma l’operatività delle disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra impiego pubblico e professione forense”. L’articolo 18 lettera d), infatti, prevede espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato anche “con qualsiasi attività di lavoro subordinata anche se con orario di lavoro limitato”.
Infine, nel febbraio del 2010 anche la Corte di giustizia dell’Ue aveva escluso qualsiasi contrasto del regime di incompatibilità italiano con i principi comunitari, fra cui quelli in materia di libera concorrenza e libertà di stabilimento.
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