Corte di Cassazione n° 4493/09 –risarcimento del danno non patrimoniale nel giudizio d’equità -25.02.09.

“quanto alla risarcibilità del danno morale, va ribadito che nel giudizio di equità del giudice di pace, venendo in rilievo l’equità cd. formativa o sostitutiva della norma di diritto sostanziale, non opera la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge, fissata dall’art. 2059 c.c., sia pure nell’interpretazione costituzionalmente corretta di tale disposizione. Ne consegue che il giudice di pace, nell’ambito del solo giudizio d’equità, può disporre il risarcimento del danno non patrimoniale anche fuori dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente protetti, sempre che il danneggiato abbia allegato e provato (anche attraverso presunzioni) il pregiudizio subito, essendo da escludere che il danno non patrimoniale rappresenti una conseguenza automatica dell’illecito (Cass. civ., Sez. Ili, 27/07/2006, n. 17144); il che, nella specie, non è neppure contestato”.

                                                     CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

                                                              Sezione III Civile

                                              Sentenza n. 4493/2009 deposito del 25.02.09

                                                           Svolgimento del processo 

1.1. Con sentenza in data 18/30-9-2004, il giudice di pace di Roma – pronunciando sulla domanda proposta dalla Clinica nei confronti di per il pagamento della somma di € 534,53 a titolo di corrispettivo di prestazioni sanitarie effettuate al gatto di proprietà del convenuto, nonché sulle domande di restituzione e risarcimento del danno proposte in via riconvenzionale dall’ rigettava la domanda attrice, ritenendola infondata e non provata; accoglieva quella riconvenzionale, condannando la Clinica alla restituzione della «somma di € 100,00 versata dal convenuto al momento dell’ammissione nella clinica del gatto, nonché al pagamento della somma di € 516,46 per danno morale conseguente al decesso del gatto, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; condannava l’attrice al pagamento delle spese processuali. 
In motivazione il giudice di pace osservava che l’attrice non aveva assolto l’onere della prova a suo carico in ordine alle prestazioni che sosteneva di avere effettuato nel corso della degenza del gatto, precisando che l’unica prestazione che risultava eseguita era una trasfusione dì sangue, prelevato senza i preventivi accertamenti sulle condizioni del gatto donatore, deceduto dopo alcuni giorni dal prelievo, perché affetto da una malattia ematica. Anche il gatto del convenuto era peggiorato a distanza di pochi giorni da quella trasfusione che ne aveva determinato la morte; donde la responsabilità della clinica in forza del contratto di prestazione d’opera professionale inter partes, eseguito con imperizia e negligenza, con conseguente titolo dell’attore al risarcimento del danno morale ai sensi dell’art. 2059 c.c., per la perdita dell’animale, equitativamente determinato ai sensi dell’art. 113 c.p.c.. 
1.2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Clinica svolgendo due motivi. 
Ha resistito depositando controricorso, con cui ha eccepito la tardività del ricorso per cassazione. 

                                                            Motivi della decisione 

2.1. Con il primo motivo si deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione al capo della decisione che ha rigettato la domanda principale di pagamento.
La ricorrente lamenta che sia stata violata la norma di cui all’art. 2697 c.c., giacché – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di pace – risultava assolto l’onere gravante su parte attrice dell’avvenuto conferimento dell’incarico (questo potendo desumersi dalla stessa circostanza dell’affidamento del gatto alla clinica da parte del proprietario) e dell’effettivo espletamento delle prestazioni sanitarie (avuto riguardo al tenore della prova testimoniale e alla documentazione prodotta in fotocopia in assenza di formale disconoscimento). 
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2236 e 2059 c.c. in relazione al capo della sentenza che ha accolto la domanda riconvenzionale di risarcimento danno. In particolare la ricorrente assume che non e provata l’esistenza di un nesso causale tra la morte del gatto e la pretesa negligenza della clinica, non potendo a tal fine rilevare la deposizione di una testimone, peraltro in buona parte de relato, priva delle necessarie conoscenze; in ogni caso il richiamo all’art. 2236 cc. sarebbe errato non ravvisandosi nel caso specifico gli estremi del dolo o della colpa grave; né potrebbe riconoscersi il risarcimento ai sensi dell’art. 2059 c.c. non risultando individuato nel comportamento dei sanitari una fattispecie penalmente rilevante. 
3.1. Va premesso che è infondata l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso.
L’atto di impugnazione risulta, infatti, inviato a mezzo del servizio postale in data 14-11-2005 e, quindi, entro il termine di cui all’art. 327 c.p.c. (avuto riguardo alla sospensione dei termini per il periodo feriale), dal momento che la sentenza impugnata risulta depositata in data 30-9-2004. Si rammenta che, a mente del comma 3 dell’art. 149 c.p.c. la notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario. 
3.2. Prima di passare all’esame dei motivi di ricorso va ribadito che le sentenze del giudice di pace, pronunciate secondo equità nelle controversie di valore non superiore a quello indicato nel comma 2 dell’art. 113 c.p.c. sono ricorribili per cassazione (se pronunciate – come quella all’esame – prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 2-2-2006 n. 40) per violazione delle norme processuali ai sensi dell’art. 360 co. 1, nn. 1, 2 e 4 c.p.c. (in quest’ultimo caso anche con riferimento alle ipotesi di inesistenza della motivazione), nonché ai sensi del n. 5 dell’art. 360 citato, quando l’enunciazione del criterio di equità adottato sia inficiata da un vizio che, attenendo ad un punto decisivo della controversia, si risolva in un’ipotesi di mera apparenza, ovvero in un’ipotesi di radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione (Cass, civ., Sez. Unite, 15/10/1999, ri.716); mentre, a seguito della sentenza n. 206 del 2004 della Corte costituzionale, la censura di violazione della legge sostanziale ai sensi del n. 3 del cit. art. 360 è consentita soltanto in caso di inosservanza o falsa applicazione della costituzione e delle norme comunitarie (di rango superiore a quelle ordinarie) e dei principi informatori della materia.
Rientra tra questi la norma dell’art. 2697 ce, regolante la distribuzione dell’onere della prova tra le parti, la quale, sebbene collocata nel codice sostanziale, costituisce principio informatore del sistema delle garanzie giurisdizionali (Cass. civ. sez. Ili 27-7-2006, n. 17144). L’attenuazione della rigida applicazione delle regole di diritto, che è propria del giudizio di equità, non può, infatti, spingersi, senza porsi in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., sino ad escludere l’onere probatorio a carico della parte istante, operando solo nel senso di ridurre, anche sensibilmente, – il grado di persuasività degli elementi addotti necessari per l’accoglimento della domanda (Cass. civ., Sez. I, 24/08/1998, n. 8397; nello stesso senso Cass. civ. sez. II 16-5-2006, n. 11413). 3.2. Ciò precisato, si osserva che il primo motivo, con cui sì deduce l’inosservanza dell’art. 2697 c.c., ancorché ammissibile, è infondato.
Innanzitutto – contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente – il giudice di pace non ha affatto escluso che sia stato acquisita la prova del rapporto Inter partes (costituendo, anzi, questo il titolo della ritenuta responsabilità della Clinica nei confronti dell’ né ha invertito l’onere della prova tra le parti, ma ha, piuttosto, ritenuto che non fosse stata fornita (dall’attrice, su cui incombeva il relativo onere) la prova dell’esatto adempimento della prestazione df opera professionale dì cui reclamava il pagamento, segnatamente evidenziando come la clinica Veterinaria avesse prodotto solo una fotocopia della prima pagina della cartella clinica e come da questo documento monco non fosse dato desumere quali fossero le prestazioni effettivamente rese (ad esclusione della trasfusione) e, nel contempo, rimarcando plurimi elementi (emergenti non solo dalle dichiarazioni; del convenuto e della sua ragazza, ma anche dalla deposizione della proprietaria del gatto «donatore») deponenti nel senso che la prestazione venne malamente eseguita. 
In realtà la ricorrente, con il motivo all’esame, (così come, del resto, con il secondo motivo, per la parte in cui contesta che vi sia la prova del nesso causale tra la trasfusione e la morte del gatto di proprietà del convenuto) tenta di suggerire, anche attraverso l’inammissibile richiamo a dati extratestuali, una valutazione dei fatti divergente da quella affermata, con apprezzamento immune da vizi logici, dal giudice del merito; il che non è consentito, trattandosi di un accertamento di fatto., che si sottrae al sindacato della Cassazione. 
3.4. Per il resto le censure del ricorrente denunciano violazione delle norme ordinarie e sono, quindi, inammissibili. 
Merita in ogni caso puntualizzare, quanto alla dedotta violazione dell’art. 2236 c.c., che la limitazione di responsabilità professionale ai soli casi di dolo o colpa grave attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. Nel caso di specie è stata, per l’appunto, individuata una specifica negligenza, per non essere stata la trasfusione preceduta dai preventivi accertamenti sulla qualità del sangue utilizzato per la trasfusione. Infine, quanto alla risarcibilità del danno morale, va ribadito che nel giudizio di equità del giudice di pace, venendo in rilievo l’equità cd. formativa o sostitutiva della norma di diritto sostanziale, non opera la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge, fissata dall’art. 2059 c.c., sia pure nell’interpretazione costituzionalmente corretta di tale disposizione.
Ne consegue che il giudice di pace, nell’ambito del solo giudizio d’equità, può disporre il risarcimento del danno non patrimoniale anche fuori dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente protetti, sempre che il danneggiato abbia allegato e provato (anche attraverso presunzioni) il pregiudizio subito, essendo da escludere che il danno non patrimoniale rappresenti una conseguenza automatica dell’illecito (Cass. civ., Sez. Ili, 27/07/2006, n. 17144); il che, nella specie, non è neppure contestato. 
Conclusivamente il ricorso va rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. 

                                                                     P.Q.M. 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in € 400,00, di cui € 100,00 per spese, oltre spese generali e accessori di legge.

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