Corte di Cassazione n° 21012/2010 – risarcimento danni – “danno estetico” -12.10.2010.- danni -12.10.09. –

La Corte di cassazione, nella sentenza in esame, ha precisato, per quanto riguarda il danno estetico, che: “In tema di risarcimento del danno alla persona, i postumi di carattere estetico, in quanto incidenti in modo negativo sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l’aspetto strettamente patrimoniale, allorché, pur determinando una così detta “micropermanente” sul piano strettamente biologico, eventualmente provochino negative ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all’età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare”.

 

 

 

 

 

                                                           CORTE DI CASSAZIONE

 

                                                              III SEZIONE CIVILE

 

                                              SENTENZA N° 21012 DEL 12 ottobre 2010

 

 

                                                          MOTIVI DELLA DECISIONE

 

 

 

Il ricorrente denuncia violazione degli articoli 61, 112, 115, 116, 132 n. 4 c.p.c. e degli articoli 2056, 1226, 2727 e 2729 c.c.

Il primo giudice aveva ritenuto che il danno al veicolo non potesse essere superiore al valore economico dello stesso, al momento dell’incidente. La decisione del giudice di pace era stata confermata in appello, senza tener conto delle spese di rottamazione e di quelle di acquisto di un’altra vettura,

Rientrano nelle nozioni di comune esperienza le spese necessarie per l’acquisto di una autovettura e quelle di rottamazione, da sostenere nel caso di demolizione di un autoveicolo.

Le censure proposte con il primo mezzo sono inammissibili.

La domanda di risarcimento del danno subito da un veicolo, a seguito di incidente stradale, quando abbia ad oggetto la somma necessaria per effettuare la riparazione dei danni, deve considerarsi come richiesta di risarcimento in forma specifica, con conseguente potere del giudice, ai sensi dell’art. 2058 secondo comma, c.c., di non darvi ingresso e di condannare il danneggiante al risarcimento per equivalente, ossia alla corresponsione di una somma pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione, allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo. (Cass., 4 marzo 1998 n. 2402).

La decisione dei giudici di appello – secondo la quale la somma liquidata dal primo giudice doveva considerarsi in tutto adeguata – sfugge, pertanto, a qualsiasi censura.

Ed appare del tutto irrilevante – in tale prospettiva – che, incidentalmente, lo stesso Tribunale abbia affermato che il M. non avesse documentato l’acquisto di altra vettura in sostituzione di quella danneggiata (circostanza questa ultima contrastata dal ricorrente, con riferimento alla documentazione prodotta).

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione degli articoli 61, 112, 115, 132 n. 4 c.p.c. degli articoli 2056 e 2057 c.c. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.

Il primo giudice non aveva tenuto conto delle risultanze della consulenza tecnica di ufficio, limitandosi ad offrire una propria valutazione in ordine alla inesistenza di postumi permanenti di natura invalidante.

Per giungere a tale conclusione, tuttavia, il primo giudice aveva considerato solo la cicatrice, senza tener conto delle conseguenze derivate dal c.d. “colpo di frusta”.

Le censure non colgono nel segno.

Il Tribunale ha condiviso le conclusioni cui era pervenuto il primo giudice. Questo ultimo aveva preso in considerazione tutte le conseguenze derivate dall’incidente (limitazione funzionale del rachide e cicatrice alla fronte), valutate dal c.t.u. come postumi permanenti nella misura del 5%, ma ha ritenuto che il danno biologico potesse essere liquidato in via equitativa, senza ricorrere alle tabelle previste per postumi permanenti di maggiore gravità.

La sentenza impugnata, in tal modo, ha dimostrato di conoscere e di applicare i principi più volte affermati nella giurisprudenza di questa Corte secondo i quali, in presenza di postumi permanenti di modesta entità (cosiddette “micropermanenti”) che non si traducono, di regola, in una proporzionale riduzione della capacità lavorativa specifica, il danno da lucro cessante in tanto è configurabile in quanto sussistano elementi concreti che inducano a ritenere che, a causa dei postumi, il soggetto effettivamente ricaverà minori guadagni dal proprio lavoro, essendo ogni ulteriore o diverso pregiudizio risarcibile a titolo di danno biologico.

In particolare, per quanto riguarda il danno estetico, è stato ritenuto che: “In tema di risarcimento del danno alla persona, i postumi di carattere estetico, (nella specie, valutati complessivamente come danno biologico permanente del 5 per cento), in quanto incidenti in modo negativo sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l’aspetto strettamente patrimoniale, allorché, pur determinando una così detta “micropermanente” sul piano strettamente biologico, eventualmente provochino negative ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all’età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare”. (Cass. 25 maggio 2006 n. 12423).

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione degli articoli 112, 115, 132 n. 4 c.p.c., articoli 1224 e 1219 n. 1 codice civile.

Il Tribunale, in ordine al terzo motivo di appello, aveva osservato che dalla motivazione della decisione di primo grado risultava che le somme riconosciute al M. erano state determinate alla attualità e che gli interessi erano stati riconosciuti, come risultava dal dispositivo.

In realtà, il primo giudice aveva riconosciuto gli interessi solo sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno al veicolo, mentre per il danno alla persona, aveva escluso – in motivazione – il diritto agli interessi (pur richiamandoli, in dispositivo). Nel dispositivo, in effetti, si legge: “Condanna N. G. e l’Assitalia spa in solido a pagare in favore di M. P. la complessiva somma di lire 3.850.000 oltre interessi come determinati in motivazione”.

Le censure formulate con tale mezzo sono fondate.

Al ricorrente spettano gli interessi e la rivalutazione, con le modalità indicate dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. 17 febbraio 1995 n. 1712):

Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata “per equivalente”, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma”.

Infine, con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione degli articoli 91, 112, 132 n. 4 c.p.c., art. 75 disp. att. c.p.c. e art. 24 della legge 749 del 1942.

Il giudice di appello aveva rigettato il quarto e quinto motivo di appello, relativi alla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado, osservando che solo in comparsa conclusionale l’appellante aveva indicato specificamente le voci della tariffa che riteneva fossero state violate.

Il Tribunale avrebbe dovuto, invece, dare adeguata motivazione in ordine alla eliminazione o riduzione delle voci di tariffa operate, al fine di consentire – attraverso il sindacato di legittimità – l’accertamento della conformità della liquidazione alle tabelle.

Anche questo ultimo motivo è privo di fondamento.

Sfugge a qualsiasi censura la affermazione, contenuta nella sentenza di appello, secondo la quale la indicazione dei minimi tariffari avrebbe dovuto essere dedotta tempestivamente in sede di impugnazione.

Si richiama la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale:In tema di liquidazione delle spese processuali, la parte che censuri la sentenza di primo grado con riguardo alla liquidazione delle spese di giudizio, lamentando la violazione dei minimi previsti dalla tariffa professionale, ha l’onere di fornire al giudice d’appello gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso dovuto al professionista, indicando, in maniera specifica, gli importi e le singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado, dovendosi escludere che tali indicazioni possano essere desunte da note o memorie illustrative successive, la cui funzione è solo quella di chiarire le censure tempestivamente formulate”. (Cass. 9 luglio 2009 n. 16149).

In tema di controllo della legittimità della pronuncia di condanna alle spese del giudizio, deve dunque essere dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, atteso che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, devono essere, invece, specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, anche in relazione al valore della controversia, nonché le singole spese asseritamente non riconosciute.

A questo ultimo riguardo, per ciò che concerne la censura relativa alle spese sostenute per la consulenza tecnica di ufficio (che, secondo il ricorrente, erroneamente il giudice di pace affermerebbe di avere liquidato alla parte attrice) è appena il caso di ricordare che gli eventuali errori in cui sia incorso il giudice del merito nella liquidazione delle spese vive, quando non possono essere corretti con il procedimento di cui all’art. 287 cod. proc. civ., possono solo costituire motivo di revocazione, ma non certo di ricorso per Cassazione (Cass. 1 dicembre 2000 n. 15373).

Anche questo ultimo profilo di censura si rivela, pertanto, inammissibile.

Conclusivamente deve essere accolto il terzo motivo e rigettati tutti gli altri.

La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altro giudice che procederà a nuovo esame, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio.

 

 

                                                                       P.Q.M.

 

La Corte accoglie il terzo motivo.

Rigetta il primo, secondo e quarto motivo.

Cassa in relazione alle censure accolte e rinvia al Tribunale di Nola anche per le spese del presente giudizio.

Potrebbero interessarti anche...