Attenti a cosa dite e cosa fate. La paura di fare e parlare

In questo momento storico si ravvisa molta ipocrisia e falsità, dove tutti sono perbenisti, generosi e privi di (pre)giudizio. Al contrario una una parola distrattamente e superficialmente detta può essere ritenuta discriminante, razzista o scandalosa. In alcuni casi è difficile parlare di colori, di popoli, di gusti e preferenze sessuali o religiose perché se per caso si sbaglia l’aggettivo o il termine da usare subito si viene mal considerati rischiando di essere additati e professionalmente distrutti. Di contro ci sono persone ipocrite che pur avendo reali convinzioni razziste e discriminanti sono abili ad evitare i cosiddetti termini “OUT” ed addirittura appaiono in pubblico come i paladini dell’uguaglianza e della solidarietà sociale. E’ ovvio che vi dev’essere il pieno rispetto della dignità personale e questo è il punto di partenza imprescindibile che assolutamente si deve confermare e rafforzare ma si contesta quel perbenismo e quell’ipocrisia che rischia di paralizzare ogni azione. Assolutamente non si può intimorire una persona fino a farle mettere in atto il vecchio detto: chi non lavora non sbaglia. Sembra che un insegnante debba mettersi paura di valutare un alunno. Potrebbe preferire di lasciar correre o dare giudizi positivi e togliersi ogni problema a danno dello studente che non riceverà un reale giudizio ed una conseguente idonea formazione. I vecchi professori degli anni 60, 70 ed 80 sarebbero tutti in carcere in base agli attuali standard comportamentali.

Il tutto trae spunto da una recente sentenza della Corte di Cassazione (SENTENZA 18 GIUGNO 2014 N. 26396) che ha preso in esame il comportamento di un  controllore delle ferrovie. In particolare quest’ultimo, avendo trovato una persona che viaggiava senza biglietto, durante la breve conversazione intrapresa per l’elevazione della multa, diceva in presenza di altri viaggiatori vicini: “proprio lei che è recidiva, che tre giorni fa non ha pagato”.

Per tale frase il viaggiatore non in regola con il biglietto si sentiva offeso e denunciava il controllore per ingiuria previsto dall’art. 594 c.p.: Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032 se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone.

Per tale condotta il Giudice di Pace emetteva sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto contestato. Al contrario la Corte di Cassazione, investita del caso, ha affermato che la condotta tenuta dal controllore era idonea a configurare il reato d’ingiuria che è una figura caratterizzata dal dolo generico, e riguarda ogni espressione lesiva della dignità e dell’onore della persona. Il giudice di pace al contrario pur avendo preso in considerazione il fatto riferito dalla parte lesa non aveva riconosciuto valore probatoria a tale dichiarazione contrariamente a quanto già previsto da costante giurisprudenza e non aveva dato rilevanza al dolo generico intrinseco in tale comportamento.

Solo per chiarezza espositiva ricordiamo che si configura il dolo generico quando vi è la volontà di compiere fare un’azione mentre si configura il dolo specifico quando c’è la volontà degli effetti della propria azione. In questo caso il controllore aveva la volontà di dire quelle parole che integrano il reato d’ingiuria anche se non c’è la volontà di offendere.

 

                                                                                                          Avv. Alessandro Franchi 

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