Quando i medici sbagliano – criteri per accertare la responsabilità dei medici

Forse la grande fiducia riposta nella scienza o forse l’effettivo prolificare di errori medici, non ci fa accettare facilmente la morte di una persona cara. C’è quasi sempre qualcuno che accusa il medico di superficialità o d’incompetenza. Vediamo quali sono i casi in cui effettivamente il medico ha perso quel senso del dovere e il rispetto per la vita umana, tradendo così Ippocrate e il paziente che a lui si è affidato con la paura di un bambino che corre dalla madre. Ultimamente la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza molto esplicativa dei criteri per poter addebitare ai medici la responsabilità di un evento nefasto. Il caso preso in esame riguarda la vertenza intrapresa dal marito e dai figli di una signora che, per un forte dolore alla testa, ricorre al Pronto Soccorso di un ospedale Beneventano. Viene dimessa e dopo pochissime ore, cade in coma e muore. In particolare la signora giunta al Pronto soccorso veniva visitata dal medico di turno e poi sottoposta a consulenza neurologica. I medici dopo averla avuta in osservazione per tre ore conclusero con una diagnosi di banale e comune cefalea vasomotoria. A tale diagnosi erano arrivati per il risultato negativo dell’esame del fondo dell’occhio fatto dal neurologo nell’ambito della sua consulenza e dalla circostanza che dall’anamnesi della signora era emerso che la stessa aveva già sofferto di emicrania diagnosticata come cefalea vasomotoria da centri specialistici per lo studio delle cefalee. Nonostante ciò, a mero titolo precauzionale l’ospedale aveva consigliato il ricovero in osservazione, ma questo era stato rifiutato dal marito, che aveva firmato al posto della moglie stordita dal forte dolore, in considerazione della semplice patologia diagnosticata. Il Tribunale di Benevento aveva rigettato la richiesta di risarcimento fatta dagli eredi che avevano invece ottenuto soddisfazione dalla Corte d’Appello di Napoli a cui si erano successivamente rivolti.

I Giudici di secondo grado avevano ravvisato una grave responsabilità sul presupposto che ” …. i medici dell’ospedale di Benevento, a fronte dei sintomi evidenziati, non solo non avrebbero dovuto consentire le dimissioni della donna, ma avrebbero dovuto subito praticare quegli esami strumentali che potessero fugare ogni dubbio o confermarlo e prevenire l’ictus avvenuto poche ore dopo”. In più aggiungevano “E’ vero che l’esame neurologico cui la signora fu sottoposta non rivelò nulla di preoccupante, ma è anche vero che l’atipico dolore insistente e proprio i pregressi episodi simili riferiti dalla paziente all’atto del suo ricovero d’urgenza avrebbero dovuto allertare i medici se, come è stato confermato dal CTU in sede di chiarimenti, una cefalea con le caratteristiche di quella accusata dalla paziente può essere, secondo la letteratura medica, un chiaro sintomo di una fase iniziale di emorragia ed è un segno patognomico dell’emorragia sub aracnoidea”. Concludevano poi “Solo una tac, come si evince dai chiarimenti del ctu e dalla perizia di parte depositata già in primo grado dagli istanti, ove eseguita all’atto del primo ricovero avrebbe potuto evidenziare i segni dell’imminente rottura aneurismatica favorendo un tempestivo ricovero presso un reparto specializzato al fine di scongiurare l’evento letale o di attenuare le conseguenze dell’evento emorragico”.

Tutto ciò però è stato nuovamente ribaltato dalla Cassazione con la recente sentenza n.28287 del 22 dicembre 2012 che ha “rimproverato” ai Giudici di merito di aver condannato i medici presumendo l’esistenza della colpa e del nesso causale sulla base dell’omessa TAC. La Corte di merito è pervenuta all’affermazione di responsabilità omettendo di procedere al necessario ragionamento controfattuale del nesso di causalità. “Non si sono posti, però il problema se, in assenza di sintomi caratteristici e con l’effettuazione di tutte le procedure del caso, il quadro clinico delineato era tale da imporre l’esame diagnostico della TAC … al fine di prevenire l’emorragia subaracnoidea, o comunque da attenuarne le conseguenze. In sostanza le due domande che la Corte di merito avrebbe dovuto porsi erano: 1) Se le condizioni concrete accertate a seguito del primo ricovero della paziente fossero tali da esigere l’effettuazione – come protocollo medico – di una tac. 2) Se l’indagine strumentale mediante TAC, ove compiuta, sarebbe stato in grado, con elevate probabilità, di scongiurare l’evento, o, comunque, da circoscriverne gli effetti dannosi. Di contro è anche vero che nella materia della responsabilità professionale del medico, il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare l’evento verificatosi (Cass. 27.4.2010 n. 10060; e Cass. 11.5.2009 n. 10743).

 

                                                                                                              Avv. Alessandro Franchi

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