Giustizia lenta, imprese piccole, gli ostacoli alla crescita –

Nelle sue «Considerazioni finali» il Governatore della Banca d’Italia, riflettendo sulle ragioni per cui da un decennio l’Italia ha smesso di crescere, ha detto due cose, apparentemente non collegate. La prima è che «le imprese italiane sono in media il 40 per cento più piccole di quelle degli altri Paesi nell’area dell’euro… e i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari». La seconda affermazione riguarda la lentezza della giustizia civile: «La durata dei processi ordinari di primo grado supera i mille giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale». Queste due osservazioni sono invece strettamente collegate.
Difficilmente una piccola impresa riesce a diventare media senza ricorrere a risorse finanziarie esterne, siano queste il credito da parte di una banca, o l’ingresso di nuovi soci nel capitale. Perché il patrimonio dell’imprenditore che la guida, o della sua famiglia, raramente consentono di fare il salto dimensionale.
 Ma una banca, o nuovi soci, saranno disposti a finanziare l’azienda, e ad assumerne i rischi, solo in presenza di un sistema giudiziario sul quale possono fare affidamento. Cioè solo se, nel caso di una controversia con l’imprenditore che guida l’azienda, potranno far valere i loro diritti di fronte ad un giudice ottenendo una sentenza equa in tempi ragionevoli. 
Se invece i tribunali sono lenti e opachi, intrattenere rapporti creditizi o contrattuali con controparti poco conosciute, come lo è una piccola impresa che sta cercando di crescere, diventa molto rischioso. Ecco allora che credito e capitali affluiscono a chi già ha una storia ed è conosciuto nel mercato. Alle imprese giovani e relativamente piccole vengono richieste garanzie reali di cui spesso non dispongono. Questo limita l’espansione delle aziende. Se poi, come spesso accade, i nuovi imprenditori sono anche i più giovani, ecco un altro motivo della difficoltà che i giovani incontrano ad inserirsi nel sistema produttivo, un argomento di cui ci siamo occupati sul Corriere del 10 maggio scorso.  
Insomma, la lentezza e la scarsa affidabilità della giustizia civile sono tra le ragioni, e le più importanti, del «nanismo» delle aziende italiane. La giustizia civile in Italia non solo è lenta: i suoi tempi si stanno ancor più allungando. Negli anni Ottanta una procedura fallimentare durava, in media, poco più di 4 anni, ora ne dura più di 9 (dati Istat). E così le aziende trovano sempre maggiori ostacoli alla crescita. Che fare? Scartiamo subito la risposta ovvia e sbagliata: che si dovrebbe spendere di più per la giustizia.
La Commissione europea sull’efficienza della giustizia (un organo del Consiglio d’Europa) calcola che lo Stato italiano spende per la giustizia 70 euro per abitante (dati relativi al 2008). La spesa in Francia è 58 euro per abitante. E non perché la Francia abbia molti meno giudici e cancellieri. I numeri sono simili: i giudici sono 9 per 100mila abitanti in Francia e 10 in Italia; i dipendenti dei tribunali con qualifica diversa da giudice sono 4 per ciascun giudice in Italia, 3 in Francia. Ciononostante la lunghezza media di un procedimento civile è la metà in Francia che in Italia. I giudici italiani sono anche pagati un po’ meglio: lo stipendio base è superiore del 20% circa al corrispondente stipendio francese.
 Una ragione della lentezza della nostra giustizia civile è lo straordinario numero di avvocati (vedi i numerosi articoli di Daniela Marchesi su www.lavoce.info).
Gli avvocati italiani sono circa 200mila, 332 ogni 100mila abitanti. In Francia sono 48mila, 76 per 100mila abitanti. Il rapporto giudici/avvocati è 32,4 avvocati per ogni giudice in Italia, solo 8,2 in Francia. L’elevato numero di avvocati, e il modo in cui sono strutturate le loro parcelle, è un incentivo a moltiplicare le cause e a prolungarne la durata, altrimenti non ci sarebbe lavoro per questa armata.
In Germania gli avvocati sono remunerati a forfait: questo evidentemente li incentiva a chiudere le controversie il più rapidamente possibile. Non solo sono più veloci, i loro compensi sono anche più elevati di quelli dei loro colleghi italiani. Nessun ministro della Giustizia ha finora avuto il coraggio di introdurre un sistema forfettario di retribuzione dei nostri avvocati. E tuttavia, nonostante un sistema che incentiva la moltiplicazione e la lunghezza delle cause, molti, soprattutto gli avvocati più giovani, non hanno lavoro: come scrive Fabiano Schivardi su www.lavoce.info «basta leggere un romanzo di Gianrico Carofiglio o di Diego Da Silva per comprendere la condizione di sottoccupazione di molti giovani avvocati italiani». E allora perché tanti giovani continuano ad iscriversi alla facoltà di giurisprudenza? Quest’anno gli iscritti al primo anno di corso sono 41mila, poco meno degli iscritti a medicina o ingegneria (rispettivamente 45 e 48mila). Il fenomeno è particolarmente accentuato nel Mezzogiorno: a Bari gli iscritti al primo anno di giurisprudenza sono 1.218, contro 283 a medicina, 238 a ingegneria. Con il numero chiuso a medicina abbiamo ridotto il numero di medici (e forse si è esagerato perché ora i medici cominciano a scarseggiare). Invece il numero chiuso a giurisprudenza non c’e, né alcuno propone di introdurlo. Forse per l’illusione, soprattutto nel Mezzogiorno, che una laurea in giurisprudenza apra le porte di un impiego pubblico o, più probabilmente, perché un’armata di giovani avvocati alla ricerca di un lavoro tiene bassi i loro stipendi avvantaggiando gli avvocati più anziani e i grandi studi legali. Fortunatamente per abbreviare la durata media delle cause civili esistono modi che non costano nulla al contribuente. In una serie di importanti lavori scientifici tre economisti (Decio Coviello, Andrea Ichino e Nicola Persico) ci hanno spiegato come. Si tratta innanzitutto di riorganizzare il lavoro dei giudici. Invece di iniziare tante cause tutte insieme, e poi portarle avanti in parallelo, è meglio aprirne poche alla volta e finirle prima di aprirne di nuove. Un esempio: supponiamo che due cause richiedano dieci giorni di lavoro l’una. Se un giudice lavora un giorno su una e un giorno sull’altra, le due cause finiscono dopo venti giorni (per la precisione una in 19 ed una in 20, con durata media di 19,5 giorni). Se invece si comincia una causa e si termina il lavoro in 10 giorni, e poi si apre la seconda, la durata media è 15 giorni perché la prima causa finisce in 10 giorni e la seconda in 20. Ovviamente vi sono altre considerazioni da tener presente, come il fatto che vi siano tempi morti (il che spingerebbe ad aver più cause attive tutte insieme) ed il fatto che concentrandosi su poche cause il giudice potrebbe essere più produttivo (il che spingerebbe nella direzione opposta). E non è solo teoria, i tre economisti hanno esaminato l’esperienza delle Sezioni Lavoro dei Tribunali di Torino e Milano. Nel primo caso i tempi di risoluzione delle cause sono molto più veloci che nel secondo: i processi a Torino durano in media 174 giorni, contro 324 a Milano. Il motivo è proprio una diversa organizzazione del lavoro dei giudici. E non si tratta solo del Nord. Un’esperienza simile, alla Sezione Lavoro del Tribunale di Napoli, in pochi anni ha ridotto la durata media dei processi del 20 per cento. A questo risultato ha contribuito anche una pratica quasi banale: quando un giudice è assente, ad esempio per una gravidanza, i suoi processi, anziché venir rimandati di un anno, sono attribuiti agli altri giudici del Tribunale, incluso, se necessario, il presidente. 
Per migliorare il funzionamento della giustizia non servono grandi riforme. Basterebbero presidenti di Tribunale intelligenti e non impigriti e un governo che introducesse il numero chiuso a giurisprudenza e avesse il coraggio di liberalizzare le tariffe degli avvocati. 
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi 

Fonte: corriere.it

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