Corte di Cassazione n° 8307/2011 – risarcimento danni – perdita di chance è un danno patrimoniale risarcibile – 12.04.2011. –

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ribadendo l’orientamento consolidato in materia, ha stabilito che “la  perdita di chance costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo – anche se non nel suo ammontare – consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale”.  

                                                                       CORTE DI CASSAZIONE  

                                               III SEZIONE CIVILE SENTENZA N°  8307 DEL 12.4.2011,  

                                                                 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 

Il Tribunale di Rimini accoglieva parzialmente la domanda proposta con citazione del 7-12-91 dall’avv. B.M. volta ad ottenere il risarcimento del danno in relazione al delitto di calunnia commesso ai suoi danni da M.M., come accertato con sentenza penale definitiva del 31-1-986, liquidando equitativamente come danno non patrimoniale la somma di L. 50.000.000, oltre rivalutazione monetaria ed interessi dal fatto illecito al saldo, e rigettando la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale.
La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 2-10-2008, accoglieva parzialmente l’appello proposto da M. M. e riduceva l’entità del risarcimento del danno non patrimoniale ad Euro 15.500,00 respingendo l’appello incidentale di B.M. volto ad ottenere anche il risarcimento del danno patrimoniale. 
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione M. M. con quattro motivi. Resisteva con controricorso B.M. e proponeva ricorso incidentale con tre motivi illustrati anche da memoria ex art. 378 c.p.c..

                                                                     MOTIVI DELLA DECISIONE 

Preliminarmente è necessario disporre la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c. in quanto proposti avverso la stessa sentenza. 
Con il primo motivo di ricorso M.M. ha denunziato violazione di legge per erronea applicazione degli artt. 2947 e 2953 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Deduce che la Corte di Appello aveva rigettato l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento, erroneamente applicando il termine previsto dall’art. 2953 c.c. senza tenere conto che il giudicato penale aveva riguardato solo l’accertamento del reato di calunnia, per cui andava applicato il termine più breve di prescrizione di cui all’art. 2947 c.c.
Il motivo è infondato in quanto la sentenza penale ha accertato il reato di calunnia accogliendo anche la domanda generica di risarcimento del danno, rinviando la liquidazione ad un separato giudizio. 
Di conseguenza i giudici di merito non sono incorsi nella dedotta violazione di legge in quanto il termine applicabile era quello più lungo di cui all’art. 2953 c.c.. Infatti, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, “nel caso in cui il giudizio penale si sia concluso con una sentenza che contiene anche la condanna generica al risarcimento dei danni a carico del responsabile civile ed in favore del danneggiato costituitosi parte civile, la successiva azione volta alla quantificazione del danno è soggetta al termine decennale di prescrizione, ex art. 2953 cod. civ., con decorrenza dalla data in cui la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile, e non al termine di prescrizione di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, atteso che la pronuncia di condanna generica, pur difettando dell’attitudine all’esecuzione forzata, costituisce una statuizione autonoma contenente l’accertamento dell’obbligo risarcitorio in via strumentale rispetto alla successiva determinazione del “quantum” (sez. 3, Sentenza n. 4054 del 19/02/2009). 
Come secondo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360, n. 5. Il giudice di primo grado aveva liquidato sia il danno morale soggettivo che il danno morale per lesione dei diritti della personalità, senza tenere conto di quanto affermato dalla Sezioni Unite nelle sentenza 11.11.2008 n. 76972, che aveva ritenuto il danno morale una categoria generale non suddivisibile in sotto categorie. 
Tale motivo è infondato in quanto la Corte di Appello ha liquidato il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. proprio alla luce dei principi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite invocata dal ricorrente. Infatti la Corte di Appello ha evidenziato che il giudice di primo grado non era incorso nella dedotta duplicazione del risarcimento, ma aveva solamente indicato i criteri a cui si era riferito per la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, criteri che si riferivano alla gravità dei fatti commessi dal M. ed alla condizione soggettiva del B., sia sotto il profilo della sofferenza psicologica che della lesione delle propria onorabilità e professionalità. 
Come affermato dalla Sezioni Unite con al sentenza del 2008 “il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore – uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione”. Di conseguenza il giudice di merito, nel procedere alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, ha indicato i criteri e gli aspetti della lesione del valore-uomo di cui aveva tenuto conto per la quantificazione , senza che ciò, al di là della denominazione usata, possa considerarsi duplicazione del risarcimento. 
Come terzo motivo il ricorrente denunziava violazione e falsa applicazione degli artt. 2056 e 1226 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, e difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360, n. 5 per aver la Corte di Appello, pur avendo ridotto la somma dovuta per il risarcimento, seguendo quanto statuito dal giudice di primo grado, aveva indicato fra i criteri utilizzati per giungere alla liquidazione equitativa del danno morale la giovane età del danneggiato. Il motivo è infondato in quanto la Corte di Appello non ha mai indicato la giovane età del danneggiato come esclusivo criterio da tenere in conto per la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, ma ha fatto riferimento unicamente agli effetti soggettivi, sotto il profilo della sofferenza psicologica e della lesione dell’onorabilità e reputazione, dei gravi fatti commessi dal M., che aveva accusato il B. ingiustamente di aver commesso un tentativo di estorsione e di rivelazione di segreto di ufficio, tenendo conto che quest’ultimo era un giovane avvocato all’inizio della carriera professionale, parametri presi in considerazione dalla Corte di Appello sono quindi rapportati alla sofferenza soggettiva di un professionista all’inizio della carriera che si vede lesa la reputazione da gravi accuse di estorsione e rilevazione di segreti di ufficio. 
Con il quarto motivo il ricorrente denunzia difetto di motivazione in ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale, rilevando che la Corte di Appello, pur riducendo l’entità del danno ad Euro 15.500,00, aveva sempre liquidato un importo di gran luna superiore al pregiudizio subito dal B., senza tenere conto che per effetto della rivalutazione la somma dovuta giungeva ad un importo pari a centinaia di milioni delle vecchie L..
Il motivo è infondato. 
La Corte di appello ha quantificato l’entità del danno al momento della commissione dell’illecito, oltre rivalutazione ed interessi calcolati sulla somma rivalutata anno per anno a partire dalla commissione del fatto, avvenuto (OMISSIS), al saldo. Il ricorrente ha contestato l’entità della liquidazione del danno, ridotta dalla Corte di Appello ad Euro 15.500,00 senza formulare specifici motivi di impugnazione sul punto, ma genericamente invocando l’enormità del risarcimento e la impossibilità economica di provvedervi. Inoltre, trattandosi di debito di valore, la Corte di Appello dopo aver liquidato l’entità del danno al momento del fatto tenendo conto del valore della moneta all’epoca, ha disposto il pagamento della rivalutazione e degli interessi per far sì che il patrimonio del danneggiato fosse effettivamente reintegrato del danno subito. E’ ovvio che la somma dovuta, mai corrisposta dal ricorrente, e aumentata con il passare degli anni, tenendo conto che dalla condotta illecita ad oggi sono trascorsi quasi quaranta anni. Il ricorso principale deve pertanto essere rigettato. Con il ricorso incidentale l’avvocato B.M. ha denunziato violazione e falsa applicazione dell’art. 2042 c.c., dell’art. 2056 c.c., comma 2, artt. 1226 e 1729 c.c. nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. 
La Corte di Appello aveva ritenuto che mancasse la prova del danno patrimoniale subito senza tener conto che il danno richiesto riguardava anche il danno da perdita di chance, in quanto la calunnia perpetrata ai suoi danni sicuramente aveva influito sullo sviluppo professionale che , senza tale calunnia sarebbe stato più veloce e più ricco. Erroneamente la corte di appello aveva fatto riferimento alle denunce, dei redditi successive al fatto dovendo liquidare il danno da perdita di chance con criteri prognostici presuntivi. 
Come secondo motivo denunzia l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione al mancato riconoscimento del pregiudizio subito alla carriera universitaria. 
I due motivi si esaminano congiuntamente per la loro stretta connessione logico giuridica. I giudici di merito hanno ritenuto che l’avvocato B. non avesse fornito alcuna prova del danno patrimoniale subito, nè dal punto di vista della diminuzione di reddito per perdita di clienti, nè dal punto di vista dell’arresto della carriera universitaria. 
I motivi formulati su tale punto sono infondati, sia sul piano della denunciata violazione delle norme sopra richiamate che su quello del vizio motivazionale. Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato di questa Corte, la perdita di chance “costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo – anche se non nel suo ammontare – consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale” (Cass. civ., sez. 3A, 21.7.2003, n. 11322). 
La risarcibilità in concreto di tale ipotesi di danno patrimoniale futuro è condizionata dalla necessità che il danneggiato dimostri anche in via presuntiva e, quindi, anche con prova orale, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegatela sussistenza di un valido nesso causale tra il danno e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno (v. Cass. civ., sez. 3A, 25.9.1998, n. 95981 – Cass civ, Sez. 3, Sentenza n. 12243 del 2007). Si osserva che il ricorrente incidentale non ha dedotto alcuna prova sul punto idonea a fornire la dimostrazione della sussistenza di tale danno o, comunque, sulla affermata “ipoteticità” del danno stesso. Infatti la valutazione della sussistenza del danno in base ad clementi presuntivi postula la necessità della prova di elementi certi su cui fondare la presunzione che, in termini giuridici ex art. 2727 c.c. è la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato.
L’avvocato B. non ha indicato neanche nei motivi del ricorso per cassazione quali sarebbero stati i fatti noti, di cui egli aveva fornito la prova, che i giudici di merito avrebbero dovuto valutare per giungere a ritenere provato il danno patrimoniale futuro. 
La sentenza impugnata non è incorsa del dedotto vizio di motivazione poichè anche in relazione all’arresto della carriera universitaria il B. non ha fornito alcuna prova che questo arresto sia stata conseguenza delle accuse formulate a suo danno. 
Con i motivi di ricorso egli deduce che, pur avendo conseguito nell’anno 1969 l’idoneità nel concorso per Assistente Ordinario presso l’Università di Ferrara, non era riuscito a procurarsi, nei tre anni successivi previsti dalla legge, la chiamata nominativa come assistente ordinario da parte di nessuna università Italiana a causa della impossibilità di provare l’assenza di pendenze penali a suo carico. La circostanza che la mancata chiamata come assistente ordinario sia dipesa dalla pendenza dei procedimenti penali e che, in mancanza di tali pendenza, egli sarebbe stato chiamato dall’Università, è del tutto sfornita di prova, come giustamente affermato dalla Corte di Appello.
Il B. non fornisce sul punto alcun elemento per far ritenere che tutti coloro che risultarono idonei a quel concorso furono poi chiamati effettivamente a divenire assistenti ordinari, nè che sulla sua posizione abbia influito la pendenza del procedimento penale. Si osserva che in relazione alla graduatoria di idoneità dell’anno 1969 non pendeva alcun procedimento penale e che a norma del D.P.R n. 686 del 1957, art. 11 citato dallo stesso ricorrente, i documenti si producono dopo l’espletamento del concorso e la valida formazione della graduatoria, e non prima. 
Il terzo motivo del ricorso incidentale, relativo al regolamento delle spese processuali del grado di appello in caso di accoglimento del ricorso per cassazione, è assorbito dalla decisione sui primi due motivi. 
In considerazione del rigetto di entrambi i ricorsi, si compensano le spese del giudizio di cassazione.

                                                                                   P.Q.M. 

LA CORTE riunisce i ricorsi e rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale.
Compensa fra le parti le spese del grado.

Potrebbero interessarti anche...