11.09.2012. – Al via il “filtro” in appello, al giudice la valutazione sull’ammissibilità

“Filtro” per l’Appello alla prova dei fatti. Debutta oggi il nuovo strumento introdotto dal Dl sviluppo per limitare la proliferazione incontrollata dei ricorsi giurisdizionali che di fatto porta ad una paralisi della giustizia. Ma non sono pochi i dubbi di esperti ed operatori. Come stigmatizzato da molti commentatori, infatti, si finisce col rimettere alla discrezionalità del giudice dell’appello la valutazione circa l’ammissibilità del mezzo di impugnazione. Il concetto di «ragionevole probabilità », infatti, intrinsecamente rimanda a una valutazione assolutamente discrezionale.  
Ridotta l’ammissibilità delle nuove prove in appello Il nuovo atto di appello: la necessità della «motivazione»  – Evidentemente animato da (poco apprezzabili) intenti didattici, il legislatore si è spinto fino a precisare che tale «motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità:1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata ».A prescindere dalla confusione lessicale compiuta dal legislatore tra motivi dell’atto di parte di impugnazione e motivazione dei provvedimenti giurisdizionali impugnati, quella appena riferita – come già evidenziato da autorevole dottrina (Consolo, in www.judicium. it) – costituisce una prescrizione che deve considerarsi superflua e ripetitiva di quanto già era stabilito dal comma 1 degli articoli 342 e 434 (ora sostituiti), che, assai più correttamente sotto un profilo terminologico, stabilivano che l’atto d’appello dovesse contenere l’indicazione dei motivi specifici di impugnazione. Un eccessivo formalismo – Non è ben chiaro, peraltro, se questa novità sia rivolta a “educare” gli avvocati che si accingono a proporre appello ovvero i giudici che devono decidere gli appelli, chiarendo a questi ultimi i numerosi casi (oltre a quello introdotto dai nuovi articoli 348-bis e 348-ter del Cpc e potenzialmente onnicomprensivo di qualsiasi appello) in cui l’impugnazione può essere dichiarata inammissibile.
Senz’altro non si può dubitare che il tenore dei nuovi commi 1 degli articoli 342 e 434 vanno in modo univoco nella direzione di un formalismo sempre più spinto che dovrebbe essere, invece, rifuggito.Considerata la direzione ora intrapresa dal legislatore, non sorprenderà se quest’ultimo con il prossimo intervento riformatore prevederà veri e propri formulari o moduli predisposti da compilare per ciascun atto del processo. Le osservazioni di carattere tecnico – In attesa di questa ulteriore futuribile riforma, a margine di quella attuale deve evidenziarsi che le previsioni di cui ai nuovi commi 1, nn. 1 e 2, degli articoli 342 e 434 sono assai criticabili anche sotto altri due concorrenti profili:· innanzi tutto, la formulazione delle disposizioni sembra far riferimento all’indefettibile necessità della presenza di entrambe le indicazioni nell’atto di appello, mentre nulla esclude che l’appellante si possa limitare, da un lato, a censurare la ricostruzione del fatto, ovvero, dall’altro, a sindacare «la violazione della legge» (questa espressione deve più correttamente e propriamente essere intesa come «violazione o falsa applicazione di una norma di diritto», salvo per assurdo voler ritenere che con il ricorso per cassazione sia possibile proporre censure più ampie di quelle consentite attraverso la proposizione dell’appello!), senza alcuna necessità di dover proporre congiuntamente entrambe le tipologie di censura;· in secondo luogo, deve sottolinearsi che dalle nuove disposizioni, così come riscritte, pare esulare un possibile sindacato che tradizionalmente e univocamente è stato ritenuto esercitabile dal giudice dell’appello,quello relativo al cattivo uso di un potere discrezionale accordato dalla legge a opera del giudice di primo grado (come, ad esempio, riduzione a equità della clausola penale, determinazione del compenso non stabilito né dai contraenti,né da altre fonti…).
Nonostante il tenore letterale delle nuove disposizioni possa indurre a ritenere che una simile censura non sia più proponibile, la stessa conservazione dell’istituto dell’appello pare imporre la conclusione di senso opposto. L’ulteriore riduzione dell’ammissibilità di nuove prove in appelloSempre in sede di conversione del Dl n. 83, come già accennato, il legislatore ha modificato il regime di ammissibilità delle nuove prove in appello sia avverso le sentenze rese nei processi di primo grado a cognizione piena, sia avverso le ordinanze rese nei procedimenti sommari di cognizione.Vale subito sottolineare che tale modifica è andata di pari passo per l’appello avverso:  · non soltanto le sentenze rese all’esito del primo grado di processi a cognizione piena (sia ordinari sia del lavoro);· ma anche le ordinanze pronunciate a conclusione del procedimento sommario di cognizione.In entrambi gli ambiti l’intervento riformatore è stato di segno identico, rivolto cioè a limitare sensibilmente l’ammissibilità di nuove prove.In seguito all’entrata in vigore della legge n. 134, infatti, le disposizioni interessate recitano come segue: da un lato, «non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa a essa non imputabile» (così il primo periodo del comma 3 dell’articolo 345 del Cpc, dal quale sono state espunte le parole «che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero»);dall’altro lato, «sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene indispensabili ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa a essa non imputabile» (così il secondo periodo dell’articolo 702-quater, ove la parola «rilevanti » è stata sostituita con «indispensabili»). Il rischio di perdere mezzi di prova indispensabili – A margine di queste modifiche, entrambe tutt’altro che di poco conto (anzi!), le osservazioni da formularsi sarebbero moltissime, ma quelle essenziali sono le seguenti: · stando alla lettera del nuovo articolo 345, comma 3, il giudice d’appello non potrebbe mai ammettere nuovi mezzi di prova, neppure ove questi siano «indispensabili», salvo che la parte dimostri di non averli potuti proporre o produrre nel giudizio di primo grado.
L’assurdità di questa conclusione è palese: il giudice dell’appello, infatti, ove accolga l’impugnazione e ritenga che sia erroneo l’accertamento di fatto compiuto dal giudice di primo grado ovvero che le disposizioni di diritto applicabili nella specie siano diverse da quelle applicate in prime cure e richiedano nuovi accertamenti di fatto, si troverà inevitabilmente nella necessità di rinnovare l’istruzione e di ammettere nuovi mezzi di prova. In questa prospettiva, pertanto, deve concludersi che la riforma dell’articolo 345 sia soltanto “di facciata”, ma all’atto applicativo il giudice dell’appello possa e debba continuare ad ammettere i nuovi mezzi di prova indispensabili per la decisione: opinare diversamente, infatti, significherebbe che il giudice dell’appello dovrebbe limitarsi a pronunciare sull’erroneità dell’operato del primo giudice, senza poter però rimediare agli errori compiuti da questi, il che si risolve in un assurdo logico, prima ancora che giuridico; · ove si condivida l’appena prospettata correzione ermeneutica dell’articolo 345, deve ritenersi che non sussiste alcuna differenza tra il regime giuridico di ammissibilità dei mezzi di prova nell’appello avverso vuoi le sentenze rese all’esito dei processi ordinari di cognizione, nonché dei processi del lavoro e locatizio, vuoi l’ordinanza resa all’esito del procedimento sommario di cognizione: in entrambi i casi, infatti, deve ritenersi che il giudice dell’appello possa e debba ammettere le prove indispensabili per la decisione del medesimo, in seguito alla ritenuta fondatezza dell’impugnazione. 
Alla luce di queste due concorrenti considerazioni sembra possibile cercare di ricostruire l’aspirazione del legislatore in materia: in particolare, questa, sembrerebbe rivolta ad articolare il giudizio d’appello, al pari degli altri mezzi di impugnazione (revocazione,opposizione di terzo e ricorso per cassazione), in due fasi, una rescindente (volta a valutare la fondatezza delle censure) e una rescissoria (funzionale a sostituire la decisione impugnata ed erronea o ingiusta con una nuova). Esclusivamente nell’ambito di quest’ultima fase sarebbe possibile procedere all’acquisizione dei mezzi di prova indispensabili. Se questi rilievi fossero esatti, dunque, si potrebbe concludere nel senso che nell’appello riformato il giudice potrebbe acquisire nuovi mezzi di prova fin dalla fase che si è indicata come rescindente, soltanto ove la parte dimostri di non averli potuti produrreo proporre in precedenza per causa a essa non imputabile (costituendo così sostanzialmente una esplicitazione particolare del principio di rimessione in termini sancito in via generale dall’articolo 153, comma 2, del codice di procedura civile). La valutazione della «ragionevole probabilità» di accoglimento dell’appello – Conferma che quella appena delineata possa essere la ricostruzione teorica dell’appello come immaginato dal legislatore della riforma di cui al Dl n. 83, convertito con modificazioni dalla legge n. 134, sembrerebbe poter forse essere tratta dai nuovi articoli 348-bis e 348-ter del Cpc, che stabiliscono che il giudice dell’appello, «all’udienza di cui all’articolo 350…, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti» deve valutare se l’appello proposto abbia o meno «una ragionevole probabilità di essere accolta», dovendo pronunciare direttamente l’inammissibilità qualora reputi l’assenza di questa «ragionevole probabilità».In realtà, peraltro, questa conclusione è immediatamente smentita dai medesimi articoli 348-bis e 348-ter, i quali espressamente stabiliscono una vasta ed eterogenea congerie di ipotesi, in cui tale valutazione di ammissibilità non deve essere compiuta. Le ipotesi di inapplicabilità – Analiticamente il cosiddetto filtro di ammissibilità non trova applicazione:1) se l’appello deve essere dichiarato inammissibile o improcedibile con sentenza;2) ove l’appello sia proposto avverso un’ordinanza resa all’esito del procedimento sommario di cognizione. Come già stigmatizzato da pressoché tutti i commentatori del Dl n. 83 (vedi i bei contributi di Bove, Caponi, Capponi, De Cristofaro, Impagniatiello e Tavormina sul sito www.judicium. it) tale esclusione è non soltanto insensata nei presupposti (fondandosi sull’erronea convinzione che il procedimento ex articoli 702-bis e seguenti del Cpc non sia a cognizione piena e non assicuri pienamente il contraddittorio e il diritto alla prova), ma anche irragionevole nelle conseguenze (importando assurdamente che le cause, almeno astrattamente, più semplici sotto il profilo istruttorio siano assoggettate a una trattazione più approfondita in appello, sicché l’eventuale accelerazione dei tempi processuali perseguita in primo grado viene abbondantemente tradita in sede d’appello!);3) nelle cause di cui all’articolo 70, comma 1, del Cpc, cioè in quelle in cui il pubblico ministero deve obbligatoriamente intervenirea pena di nullità rilevabile d’ufficio;4) qualora siano proposti più appelli avverso la medesima sentenza e anche uno soltanto di essi abbia delle ragionevoli probabilità di accoglimento. Come già anticipato, l’esistenza di queste eccezioni all’applicabilità del cosiddetto filtro diammissibilità in appello impone di escludere che possa essere seguita la faticosa e impervia ricostruzione teorica dell’appello riformato sopra avanzata: in queste ipotesi, infatti, il giudice dell’appello non deve compiere una valutazione preliminare della fondatezza dell’impugnazione, ma sembrerebbe dover procedere direttamente alla valutazione della sussistenza dei requisiti previsti per l’ammissione dei nuovi mezzi di prova. L’incomprensibilità della valutazione della «ragionevole probabilità» di accoglimento – Le stesse considerazioni che precedono, peraltro, mettono in luce le profonde e intrinseche contraddittorietà e incomprensibilità della riforma in esame.Attraverso l’appello, come ribadito apertis verbis dal medesimo articolo 342, comma 1, n. 1, del Cpc, che già ha costituito oggetto sopra di qualche rapida considerazione, è possibile per la parte soccombente – tra l’altro – censurare la ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado. Questo motivo di impugnazione normalmente si fonda sulla congiunta denuncia sia dell’erronea valutazione delle prove acquisite, sia della necessità di assumere nuove prove. Ove venga preclusa alla parte soccombente la possibilità di vedersi ammettere nuove prove, salvo soltanto quelle che la medesima dimostri di non aver potuto proporre per causa a lei non imputabile, si finisce contestualmente con l’escludere ogni «ragionevole probabilità» di accoglimento dell’appello. Ma come stigmatizzato da tutti i commentatori del Dl questa formula finisce di fatto con il rimettere alla discrezionalità del giudice dell’appello la valutazione circa l’ammissibilità del mezzo di impugnazione. Il concetto di «ragionevole probabilità », infatti, intrinsecamente rimanda a una valutazione assolutamente discrezionale.Anche ove si voglia intendere l’espressione «ragionevole probabilità » in modo il più possibile rigoroso, come avviene nell’ambito della statistica, ove con tale formula si fa riferimento alla percentuale di verificazione di un evento incerto, deve sottolinearsi che residuano amplissimi e insindacabili margini di valutazione: · non tanto nell’individuazione della soglia oltre la quale deve essere dichiarato ammissibile l’appello (è sufficiente un 51% o è necessario un 90% di possibilità che l’appello sia accolto?);· ma soprattutto in relazione alla sussistenza della percentuale di possibile accoglimento in concreto dell’impugnazione (come è mai possibile, prima di aver fondatamente considerato la decisione di primo grado, i motivi di impugnazione nonché aver assunto i mezzi di prova invocati valutare se l’impugnazione potrà e dovrà o meno essere accolta in tutto o in parte?). Ulteriormente, a margine di quest’ultima considerazione non può tacersi che l’intera attività di giudizio è profondamente intrisa dei poteri discrezionali del giudice (nel valutare le prove e nell’interpretare le norme di diritto applicabili), sicché appare assolutamente irragionevole discorrere di «ragionevole probabilità» circa l’esito di un giudizio.
(da Guida al Diritto 35/2012)

 

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