05/09/2008 – Riforma della Giustizia

Riforma della Giustizia: è necessario distinguere le riforme processuali da quelle ordinamentali.
Il dibattito, avviato questa estate dai media, sulle preannunciate iniziative governative di riforma della giustizia rischia di assumere una piega poco fruttuosa.

L’interesse dei più, difatti, pare principalmente rivolgersi alla necessità di interventi che investano l’organizzazione dell’ufficio del Pubblico Ministero ed i suoi rapporti con la magistratura giudicante, la disciplina dell’azione penale (in una prospettiva che mira a contemperare il principio costituzionale dell’obbligatorietà del suo esercizio con l’introduzione di modalità idonee a garantirne, in concreto, l’effettività), la composizione ed il funzionamento del CSM.

Non mancano neppure quanti, in questo generale quadro di riforme, auspicano la reintroduzione dell’istituto dell’immunità parlamentare: tema su cui è certo lecito e importante confrontarsi, senza tabù o ipocrisie, ma che è meno urgente rispetto all’esigenza di far recuperare efficienza al “servizio giustizia”, così come auspicato da tempo dai cittadini. Chi scrive non ha mancato di sottolineare, ancora di recente, l’opportunità (forse, ormai, addirittura la necessità) di interrogarsi sulla predisposizione di riforme anche di natura ordinamentale, auspicando, sul punto, l’inizio di un confronto – tra le forze politiche come tra gli operatori del diritto – anche accesso, ma allo stesso tempo alieno da contrapposizioni puramente ideologiche e da logiche di pura fazione. Nondimeno, proprio la consapevolezza – lo ho sottolineato, autorevolmente, dalle colonne de La Stampa, Carlo Federico Grosso – che il rilievo costituzionale delle materie interessate da simili interventi renderà inevitabile un laborioso (e si spera “elevato”) dibattito parlamentare, rende necessario predisporre – stante l’indifferibilità di una soluzione all’ormai annoso problema della durata dei giudizi (civili come penali) – una serie di interventi sulla disciplina del processo.

Urge in particolare, a mio parere, per cominciare dal settore della giustizia civile, una razionalizzazione dei troppi modelli processuali esistenti, nonché l’incentivazione di forme stragiudiziali di definizione delle controversie.

È arrivato, inoltre, il momento di affrontare, con pragmatismo, il problema nascente dalla previsione della generalizzata appellabilità di tutte le sentenze di primo grado. Non diversamente, anche nel settore penale appare necessario incrementare – come ho già avuto, in passato, modo di sottolineare – il novero degli istituti con scopi deflativi del processo. In questa prospettiva, oltre all’ampliamento dell’area dei reati procedibili a querela, potrebbero essere previste forme di archiviazione del procedimento (o di definizione preliminare del giudizio) condizionate, ad esempio, alla circostanza che l’indagato si astenga in futuro dal commettere ulteriori reati, in relazione, ovviamente, alla scarsa offensività del fatto posto in essere, oppure alla realizzazione di condotte di riparazione o di risarcimento del danno. Si tratterebbe, in sostanza, di dare vita ad istituti che sottendono la medesima ratio a cui si ispirano quelli previsti nell’ambito della giustizia minorile, ovvero per i reati devoluti alla competenza del giudice di pace. Infine, specialmente in un contesto che fosse in futuro caratterizzato da simili interventi, non più eludibile diventerebbe una riforma profonda della stessa disciplina della prescrizione del reato, che potrebbe ispirarsi, a mio avviso, ad un sistema analogo a quello contemplato in campo civile, e dunque basato sull’individuazione di un atto del processo – non necessariamente quello introduttivo, ma al limite l’adozione di una eventuale sentenza di condanna, da parte del giudice di prime cure – quale momento finale del decorso del termine prescrizionale.

Fonte: noipress.it 

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