Corte di Cassazione Sezioni Unite n° 26810 – norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo – 20.12.07.

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Con la sentenza in  esame la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, contrariamente ad un diverso orientamento il quale riteneva che le norme deontologiche andassero interpretate secondo canoni ermeneutici fissati dagli artt. 1362 e ss. cod. civ , previsti per i contratti, ha stabilito “…Si deve pertanto enunciare il seguente principio di diritto, in applicazione dell’ art. 384 c.p.c., come sostituito dall’art. 12 d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40: le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla corte di legittimità”.

                                                                         CORTE DI CASSAZIONE

                                                Sezioni Unite Sentenza n. 26810 del 20 dicembre 2007

(Presidente G. Nicastro, Relatore A. De Matteis)

                                                                        Svolgimento del processo

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Trani ha inflitto all’avv. M. S. la sanzione disciplinare della censura, per i seguenti comportamenti:
a)avere intimato al debitore sig. D.M. A. 10 precetti cambiari, aventi tutti la medesima data del 5 luglio 2001 e notificati tutti nell’arco di pochissimi giorni (alcuni anche il medesimo giorno), così violando l’art. 49 del Codice deontologico forense, per avere aggravato la posizione debitoria della controparte;b) avere richiesto onorari non dovuti, ovvero sproporzionati, rispetto al valore della controversia, ai medesimo D.M., così violando l’art. 6 del Codice deontologico forense, per avere tenuto un atteggiamento difensivo vessatorio nei confronti della controparte. In Bisceglie il 5 luglio 2001 ed in Trani il 10 ottobre 2001. Il ricorso dello S. è stato respinto dal Consiglio nazionale forense con decisione 23 settembre/15 dicembre 2006 n. 165.In relazione al primo motivo di ricorso, con cui lo S. aveva lamentato errata ricostruzione e valutazione dei fatti, il Consiglio nazionale forense ha rilevato che è documentato che il professionista, sebbene potesse azionare il credito portato dai titoli con unico atto di precetto, evitando così di aggravare inutilmente di spese il debitore, ha intimato nell’arco di pochissimi giorni, in forza di singole cambiali, già tutte scadute prima della notifica del primo atto, singoli atti di precetto con il relativo carico di spese.Ha valutato che tale condotta è contraria ai canoni di probità e correttezza, cui l’esercizio della professione forense deve ispirarsi.Quanto al preteso difetto di motivazione in relazione al capo 2) dell’incolpazione, il Consiglio ha rilevato che, rispetto ad un credito capitale di circa 20 milioni, lo S. ha richiesto una parcella di lire 14.784.080.
Egli sottolinea, a riprova della correttezza della pretesa, che tale parcella gli è stata liquidata dal magistrato, ma il Consiglio ha valutato che la esosità delle sue pretese risulta anche dal comportamento del cliente, che lo aveva estromesso dalla pratica, e definito il contenzioso direttamente con il proprio debitore.
In conclusione il Consiglio nazionale forense ha ritenuto che, valutate globalmente le due incolpazioni, la sanzione della semplice censura fosse congrua.Avverso tale decisione lo S. ha proposto ricorso per Cassazione, con cinque motivi, con atto notificato il 28 aprile 2007.Il Consiglio nazionale forense non si è costituito.

                                                                             Motivi della decisione

Si deve esaminare per primo il quinto motivo di ricorso, in quanto involge una questione di diritto, di carattere potenzialmente assorbente. Con esso il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 49 Codice deontologico forense, con riferimento agli artt. 480 e 491 c.p.c. sostiene che gli atti di precetto, non costituendo atti processuali, non rientrano nella previsione dell’art. 49 applicato dal Consiglio nazionale forense. Detta norma, intitolata “Pluralità di azioni nei confronti della controparte”, vieta all’avvocato di aggravare la situazione debitoria della controparte con onerose e plurime iniziative giudiziarie quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita.
Poiché, a norma dell’art. 491 c.p.c., l’espropriazione forzata inizia con il pignoramento, i plurimi precetti azionati dall’avv. S. non rientrerebbero nella previsione disciplinare dell’art. 49, in quanto non costituiscono iniziative giudiziarie. L’esame del motivo implica un problema metodologico circa i criteri da seguire nella interpretazione della norma denunciata, se quelli dell’art. 12 preleggi, propri della norma di legge, o quelli previsti dagli artt. 1362 e segg. cod.civ. per la interpretazione dei contratti.
Nella giurisprudenza di questa Corte è possibile rinvenire due orientamenti.
Secondo il primo, tradizionale, orientamento, le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini (o dai collegi) professionali, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi, ma sono espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini (o dei collegi), sì da ripetere la loro autorità, oltre che da consuetudini professionali, anche da norme che i suddetti ordini (o collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare. Ne discende che le suddette disposizioni vanno interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici fissati dagli artt. 1362 e ss. cod. civ. Ne discende ancora che con il ricorso per cassazione è denunciabile, ex art. 360, numero 3, cod. proc. civ., non solo la violazione a falsa applicazione dei suddetti canoni della interpretazione dei contratti, ma altresì, ex art. 360, numero 5, cod. proc. civ., il vizio di motivazione (da ultimo Cass. Sez. Un. 10 luglio 2003 n. 10482).L’esposto orientamento è contrastato da Cass. 23 marzo 2004 n. 5776 e Cass. 14 luglio 2004 n. 13078.
Mentre la prima delle due sentenze si limita a dare atto che si va delineando nella giurisprudenza di questa Corte un indirizzo secondo cui, nell’ambito della violazione di legge, va compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare, la seconda (Cass. 13078/2004) sviluppa un ampio ed articolato esame critico del primo orientamento, cui argomenti fondamentali si possono così riassumere:
1. i consigli nazionali degli ordini professionali previsti dal d.lgs.lgt. 23 novembre 1944 n. 382 costituiscono organi speciali di giurisdizione nella materia disciplinare per i rispettivi iscritti, previsti dalla sesta disposizione transitoria della costituzione;2. ne consegue che i ricorsi per cassazione avverso tali decisioni sono proposti ai sensi dell’art. 111 Costituzione, ammessi soltanto per violazione di legge, per cui non è consentita la deduzione di vizi di motivazione previsti dall’articolo 360 n. 5 c.p.c.;3. l’interpretazione delle clausole contrattuali costituisce una quaestio facti perché ha per oggetto “la comune intenzione delle parti” (arti. 1362 c.c.), e cioè la loro volontà, la cui indagine rientra nel merito della causa. Il codice deontologico contiene, invece, norme giuridiche, sia pure (normalmente) rilevanti nel solo ordinamento interno dell’ordine professionale che le ha approvate. Rispetto alle norme giuridiche non rileva l’indagine sulla volontà di chi le ha emanate, ma valgono i diversi criteri elaborati per l’interpretazione delle norme giuridiche, e cioè per la soluzione delle questioni di diritto.4. l’interpretazione diretta della norma del codice deontologico, da parte della Corte di legittimità, non viola l’autonomia dell’ordine professionale. Questa autonomia si estrinseca nell’approvazione del codice deontologico (consentita dall’ordinamento generale in modo espresso od implicito), codice che, una volta emanato, costituisce una autoregolamentazione vincolante nell’ambito dell’ ordinamento di categoria (Cass. 6 giugno 2002 n. 8225), e quindi sia per i singoli professionisti che per gli organi dell’ordine.5. L’orientamento tradizionale che qualifica in ogni caso l’interpretazione del codice deontologico come quaestio facti non permette un sindacato di questa Corte su detta interpretazione se non sotto l’aspetto della mera esistenza di una motivazione a suo sostegno. Viene così a mancare una effettiva garanzia dell’incolpato che ritenga di avere rispettato la norma del codice deontologico e non si realizza la funzione del codice deontologico di autoregolamentazione vincolante non solo per il singolo professionista, ma anche per lo stesso ordine professionale.6. Una conferma indiretta dell’assetto insoddisfacente, sotto l’aspetto della tutela giurisdizionale del professionista, derivante dall’orientamento tradizionale può trarsi proprio dalla sentenza delle Sez. Un. 10 luglio 2003 n. 10842, perché detta sentenza ha analiticamente considerato l’art. 15 del codice deontologico forense sulla cd. tassa parere per la liquidazione degli onorari da parte del consiglio dell’ordine (3.4 e 3.5 della motivazione) in modo ben più ampio di quanto richiesto dalla mera constatazione che l’interpretazione datane dalla decisione impugnata era motivata in modo rispettoso degli artt. 1363 e seguenti c.c, finendo in effetti con il convalidare con la propria diretta interpretazione della norma deontologica la interpretazione datane dal Consiglio nazionale forense, ai fini della sussistenza del (confermato) illecito disciplinare del professionista, che contestava detta interpretazione.Il secondo orientamento sopra riassunto, all’esito di un’attenta verifica da parte di queste Sezioni Unite, risulta ancorato a dati ordinamentali e perciò preferibile, per i seguenti motivi:1.Mentre i Consigli dell’Ordine territoriali esercitano funzioni amministrative, anche quando operano in materia disciplinare, il Consiglio Nazionale Forense, allorché pronunzia in materia disciplinare, è un organo giurisdizionale (ex pluribus, da ultimo, SS.UU. 23 10 aprile 2004 n. 6406, 23 gennaio 2004 n. 1229, 22 luglio 2002 n. 10688, 11 febbraio 2002 n. 1904 e, nello stesso senso, Corte cost. 12 luglio 1967 n. 110, 6 luglio 1970 n. 114 in motivazione, 2 marzo 1990 n. 113).2. Il d.lgs.lgt. 23 novembre 1944 n. 382, che detta norme sulle funzioni dei consigli degli ordini professionali in materia disciplinare, si applica anche (artt. 18 e segg.) alle professioni di avvocato (e prima di procuratore), ed al Consiglio nazionale forense contestualmente istituito dall’art. 21 del detto provvedimento legislativo.3. La sesta disposizione transitoria della Costituzione prevede la revisione degli organi speciali di giurisdizione al momento esistenti. Tale norma è stata interpretata dal giudice delle leggi (Corte Cost. sent. 19 dicembre 1986 n. 284) nel senso che il termine di revisione non è perentorio; pertanto, mentre per gli ordinamenti professionali posteriori alla Costituzione (entrata in vigore il 10 gennaio 1948) vige il divieto posto dall’articolo 102, comma secondo, Cost. di istituire nuove giurisdizioni non solo straordinarie ma anche speciali, per quelli anteriori all’emanazione della carta costituzionale (tra i quali rientra il Consiglio nazionale forense, di cui al precedente d.lgs.lgt. 23 novembre 1944 n. 382) continua a trovare applicazione la sesta disposizione transitoria, secondo cui gli organi di giurisdizione speciale già esistenti nel nostro ordinamento continuano ad essere operanti.4. Pertanto il Consiglio nazionale forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale istituito con d.lgs. lgt. 23 novembre 1944, n. 382, etuttora legittimamente operante. Le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano – per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M. – il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo all’indipendenza del giudice, all’imparzialità dei giudizi e alla garanzia del diritto di difesa. (Cass. Sez. un. 23 marzo 2005 n. 6213).Quello che si svolge davanti al Consiglio Nazionale Forense è un giudizio di carattere giurisdizionale e si conclude con sentenza, pronunciata in nome del Popolo Italiano (art. 64 r.d. 22 gennaio 1934 n. 37, come successivamente modificato), impugnabile davanti alle Sezioni Unite: art. 56, terzo comma, del citato regio decreto n. 1578 del 1933 (Sezioni Unite: sent. 10 maggio 2001, n. 187, 2 aprile 2003 n. 5072).5. Le norme del codice deontologico forense in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, elencanti i comportamenti che il professionista deve tenere con i colleghi, con la parte assistita, con la controparte, con i magistrati ed i terzi, costituiscono esplicitazioni dei principi generali, contenuti nella legge professionale forense (Sezioni Unite 6 giugno 2002 n. 8225).6. L’indiscusso carattere giurisdizionale del processo avanti al Consiglio nazionale forense in sede disciplinare non implica di per sé che tutti i criteri decisori del giudice speciale siano costituiti da norme di legge. Detto carattere deriva alle norme del codice disciplinare dalla delega loro effettuata dalla legge statale (nella specie r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e d.lgs.lgt. 23 novembre 1944 n. 382) e dalla loro funzione di parametro normativo generale alla stregua del quale valutare la condotta dei professionisti iscritti. Trattasi di un processo di formazione legislativa, attraverso il rinvio alle determinazioni dell’autonomia collettiva, che assumono così, per volontà del legislatore, una funzione integrativa della norma legislativa in bianco, ampiamente studiata e sostenuta dalla dottrina ed applicata nei varicampi del diritto. In particolare tale processo formativo del precetto legislativo è frequente nella disciplina del lavoro e previdenziale: ad esempio in tema di minimi contributivi (art. 1 d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 1989, n. 389); in tema di deroga alla tutela della professionalità prevista dall’articolo 2103, 2° comma, codice civile (per la quale il terzo coma sancisce la sanzione di nullità di qualsiasi accordo contrario), consentita viceversa agli accordi collettivi, indipendentemente dal consenso del lavoratore affetto, e dalla stessa iscrizione al sindacato stipulante, in caso di crisi aziendale, dall’art. 4, comma 11, legge 23 luglio 1991, n. 223. In tali casi, ed altri numerosi consimili, la Corte di legittimità procede all’esame diretto dell’intero precetto legislativo, quale risulta dalla norma di rinvio e dalla fonte collettiva che lo integra, la quale, nel caso citato, non avrebbe di per sé nessun altro titolo per essere vincolante nei confronti del destinatario (per la prima fattispecie: Cass. 7 marzo 2002 n. 3311; Cass. 7 novembre 2003 n. 16762; Cass. 26 settembre 2005 n. 18761; per la seconda: Cass. 7 settembre 2000 n. 11806). La fonte pattizia, nel momento in cui assume valore di legge, entra in questa categoria normativa e ne segue i criteri interpretativi.
Una diversa opinione, che demandasse al giudice del merito l’esame della fonte contrattuale che integra il precetto di legge, priverebbe la Corte di legittimità della sua funzione nomofilattica ed esporrebbe i cittadini alla possibilità di esiti giurisprudenziali contrastanti, ove si segua quella giurisprudenza diffusa, la quale sostiene che i criteri logici che presiedono al vaglio della correttezza interpretativa ai sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile, possono legittimamente lasciar filtrare interpretazioni dei giudici del merito contrastanti ed opposte della medesima clausola contrattuale.
Tale esito non sembra ammissibile in presenza di un codice deontologico che può incidere, come ad esempio con la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo, su diritti soggettivi sorti sulla base di norme di legge. D’altra parte, poiché il controllo di legittimità è limitato alla constatazione della assenza di motivazione o alla presenza di una motivazione puramente apparente (ex pluribus Cass. Sez. un. 2 aprile 2003 n. 5072) e non può estendersi all’apprezzamento della rilevanza del fatto assunto nel capo di incorporazione (Cass. 11 marzo 2004 n. 5038), la negazione di un potere di interpretazione diretta della norma incriminatrice priverebbe il controllo di legittimità di qualsiasi contenuto.Si deve pertanto enunciare il seguente principio di diritto, in applicazione dell’ art. 384 c.p.c., come sostituito dall’art. 12 d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40: “le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla corte di legittimità”.Alla luce di tale principio va esaminato l’art. 49.Mentre il corpo della norma parla di iniziative giudiziarie, la sua intitolazione parla di pluralità di azioni nei confronti della controparte.
Questa discrasia terminologica va superata con il criterio ermeneutico funzionale. Poiché, come accennato sopra,le norme del codice deontologico forense costituiscono l’esplicitazione esemplificativa dei principi generali contenuti nella legge professionale forense (Case. 5038/2004 cit.), l’art. 49 in esame va interpretato nel senso che l’espressione iniziative giudiziali va riferita a tutti gli atti, anche aventi carattere propedeutico al giudizio esecutivo, suscettibili, per il loro carattere plurimo non necessario, di aggravare la posizione debitoria della controparte. Pertanto in tale previsione normativa rientrano anche gli atti di precetto, i quali, per giurisprudenza costante, non costituiscono un atto di carattere processuale (Cass. 19 dicembre 2003 n. 199512, Cass. 24 febbraio 1996 n. 1471).
La interpretazione data dalla sentenza impugnata dell’art. 49 del codice disciplinare forense è pertanto corretta. Tutti gli altri motivi di ricorso sono egualmente infondati, alla luce del principio più volte ricordato (Cass. 11 marzo 2004 n. 5038) secondo cui in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, non compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio del proprio potere di controllo di legittimità, sindacare l’apprezzamento della rilevanza del fatto assunto nel capo di incolpazione, essendo questo di competenza degli organi disciplinari forensi.
Esaminando comunque i singoli motivi, in quanto intitolati a violazione di legge, con il primo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli arti. 3, 24, 111 Cost, 112 c.p.c., 3 legge 7 agosto 1990 n. 241 (art. 360, n. 3 c.p.c,), assume che la valutazione unitaria dei due addebiti, compiuta dalla sentenza impugnata, comporta una modifica dei fatti ascritti e dimostra l’insufficienza dei singoli addebiti ad integrare gli estremi di un illecito disciplinare.Nessun argomento il ricorrente adduce per suffragare la tesi della modifica dei fatti ascritti.Quanto alla valutazione globale, questa corrisponde ad un principio generale codificato in materia penale (art. 81 c.p.), spesso preteso dallo stesso incolpato perché ad esso più favorevole (Cass. sez. un. 9 marzo 2005 n. 5079), ammesso dalla giurisprudenza di legittimità in materia disciplinare (Cass. 11 novembre 1998 n. 11392, Cass. 28 agosto 1996 n. 7889), e sicuramente legittimo e necessario, perché diretto ad una valutazione complessiva dei comportamenti.Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), e dell’art. 3 legge 7 agosto 1990 n. 241, censura la sentenza impugnata perché non avrebbe indicato con precisione i documenti da cui ha tratto il convincimento che il professionista potesse azionare un unico atto di precetto.Il motivo è inammissibile, per difetto di autosufficienza.
A fronte di un preciso riferimento della decisione impugnata ai plurimi titoli cambiari ad unica scadenza, che l’avv. S. ha azionato separatamente anziché unitariamente, il ricorrente si dilunga in una serie di argomentazioni prive del benché minimo elemento di concretezza, atto a scalfire il riferimento documentale della decisione che impugna.
Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio del contraddittorio, nonché dell’art. 3 legge 7 agosto 1990 n. 241, (art. 360, n. 3 c.p.c.), lamenta che la sentenza impugnata avrebbe fatto confusione tra esecuzione intesa come posizione processuale e posizione debitoria intesa in senso sostanziale.Il motivo è infondato.La decisione del Consiglio nazionale forense, nell’analizzare compiutamente le singole censure dello S. alla decisione di primo grado, ha esaminato anche l’argomento, qualificato formale, secondo cui nella motivazione della decisione impugnata si fa riferimento all’aggravamento processuale, mentre nella rubrica si fa riferimento all’aggravamento della posizione debitoria. Ha spiegato che, aggravando la posizione processuale passiva, si aggravano anche e soprattutto gli oneri debitori.L’odierna censura nulla aggiunge o sottrae alla razionale motivazione della decisione impugnata sopra riportata. Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo ancora violazione dell’art. 3 legge 7 agosto 1990 n. 241 e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata sotto due profili: a) perché, nonostante la diversa conclusione del Procuratore Generale, ha escluso ogni rilievo alla circostanza che nella procedura esecutiva il magistrato abbia liquidato come onorari una somma addirittura maggiore di quella richiesta dal ricorrente; b)perché ha assegnato valore alla circostanza della revoca del mandato da parte del proprio cliente a causa delle sue richieste esose, non risultante da alcun documento.Trattasi ancora una volta di censure che attengono ad aspetti motivazionali sottratti al controllo di legittimità.Il ricorso va pertanto respinto.Nulla per le spese processuali, attesa la contumacia.
                                                                                      P.Q.M.

rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 13 novembre 2007.

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