Corte di Cassazione n° 26958/09 – contratto di soggiorno – risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta del creditore – 20.12.09. –
La Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, avente ad oggetto un contratto di soggiorno turistico, ha stabilito che la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, in particolare sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile, sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. La Corte ha precisato che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha sia nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, sia nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione da parte del creditore, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno.
CORTE DI CASSAZIONE
III SEZIONE CIVILE
20 DICEMBRE 2007, N. 26958
(……….)
IN FATTO
Con atto di citazione in appello del 18 febbraio 2002, B.R., nella qualità di titolare dell’Hotel (……….), impugnò dinanzi al tribunale di Teramo la sentenza con la quale il Giudice di pace di Atri lo aveva condannato al pagamento, in favore di P.G., della somma di L. 4 milioni e 550 mila.
Espose l’appellante: – che la P. aveva, in primo grado, chiesto e ottenuto dal giudice di pace la declaratoria di risoluzione per impossibilità sopravvenuta di un contratto di soggiorno per due persone presso l’Hotel (…….), stipulato, tramite l’agenzia napoletana (….), dal proprio coniuge, D.L.D., deceduto improvvisamente il giorno precedente l’inizio del soggiorno; – che, per effetto della così dichiarata risoluzione contrattuale, egli era stato condannato a restituire all’attrice quanto già ricevuto a titolo di pagamento della convenuta prestazione alberghiera; – che tale condanna (sia pur detratta da essa il controvalore della prima giornata di soggiorno) era del tutto priva di giuridico fondamento, attesa la propria carenza di legittimazione passiva, da ricondursi piuttosto all’agenzia di viaggi partenopea; – che la declaratoria di risoluzione, ex art. 1463 c.c., del contratto di soggiorno era, comunque, giuridicamente infondata poiché, a mente della norma citata, il debitore poteva ritenersi legittimato a dedurre l’impossibilità della propria, prestazione, onde esimersi dal compierla, ma non (come nella specie) dell’altrui controprestazione; – che, infine, la statuizione relativa al quantum restitutorio posto a suo carico appariva a sua volta contraddittoria (avendo il giudice di pace ridotto l’importo da restituire alla P. in misura pari al corrispettivo di un giorno di permanenza in albergo dacchè la disdetta della prenotazione era avvenuta proprio il giorno di inizio della prenotazione), poiché, traendo le dovute conseguenze dalla declaratoria di risoluzione tout court si come pronunciata in primo grado, ad essa si sarebbe conseguentemente dovuto attribuire efficacia liberatoria piena e non parziale.
Il Giudice di appello respinse il gravame, osservando, per quanto ancora di rilievo nel presente giudizio di legittimità: – quanto al preteso difetto di legittimazione passiva dell’appellante-albergatore, da un canto, che la documentazione acquisita agli atti deponeva univocamente nel senso che la prenotazione alberghiera era stata effettuata dalla società (……….) in forza di mandato con rappresentanza ricevuto dal cliente, essendo stata inserita, nel relativo documento, la frase “la presente prenotazione viene effettuata dalla (……….) nella qualità di ufficio viaggi presentatore, in nome e per conto dello scrivente, che dichiara di essere pienamente d’accordo”; dall’altro, che la spendita del nome del rappresentato non aveva mai formato oggetto di contestazione in primo grado da parte dell’appellante, che si era piuttosto limitato, in sede di note difensive, a richiamare la giurisprudenza di legittimità pronunciatasi, in argomento, a favore della configurabilità di un mandato senza rappresentanza come contratto normalmente ravvisabile nelle vicende negoziali aventi ad oggetto prenotazioni alberghiere effettuate tramite agenzie di viaggi; – quanto alla pretesa inapplicabilità, nella specie, del rimedio della risoluzione contrattuale per impossibilità sopravvenuta della, prestazione (azionabile, ad avviso dell’appellante, solo allorquando il debitore deduca l’impossibilità della propria prestazione – nel caso concreto già eseguita – e non già quella della controprestazione), che l’interpretazione dell’art. 1463 c.c., così evocata non poteva essere condivisa, “alla luce della dizione letterale della norma in parola, tale da concedere l’azione di risoluzione come rimedio esperibile nei confronti della parte liberata dalla propria obbligazione per impossibilità sopravvenuta della prestazione al fine di ripristinare l’equilibrio patrimoniale alterato per il venir meno della causa solvendi.
Giusta quanto chiarito dalla stessa S.C. con giurisprudenza ormai risalente (Cass. 23.8.1949, n. 2394), ai fini della risoluzione non ha rilievo che l’impossibilità riguardi la prestazione di una sola parte o di entrambe. La contraria interpretazione condurrebbe alla conseguenza del doversi negare la legittimazione ad esperire l’azione di risoluzione per impossibilità sopravvenuta alla parte che, avendo adempiuto la propria prestazione (rimasta, quindi, possibile), ha, ai sensi dell’art. 1463 c.c., il diritto alla restituzione della prestazione stessa. La sussistenza dell’impossibilità della prestazione dovuta dall’Hotel (……….) è, poi, incontestabile, ove si consideri che il titolare dell’impresa alberghiera era obbligato, in forza del contratto concluso con il D.L., ad assicurare al cliente i servizi di alloggio e pensione completa per due persone, fra le quali lo stesso cliente, la cui sopravvenuta malattia mortale integra indubbiamente una causa d’impossibilità per l’Hotel (……….) di eseguire la prestazione promessa a partire dalla data del ricovero in ospedale del cliente” (così, testualmente, la motivazione della sentenza oggi impugnata a folli 8 e 9); – quanto, infine, all’ultima doglianza dell’appellante – affermativa di una pretesa contraddittorietà della motivazione della sentenza del giudice di pace che, affermata in limine la risolubilità tout court del contratto di soggiorno, aveva poi pronunciato condanna al rimborso soltanto parziale della somma originariamente ricevuta – essa si rivelava inammissibile per carenza d’interesse, essendosi l’error iuris così realizzato in realtà risolto in un accoglimento, sia pur parziale, delle ragioni e delle istanze dell’appellante medesimo.
Avverso tale sentenza, B.R. propone ricorso per cassazione, sostenuto da 3 motivi di gravame. Resiste con controricorso P.G..
IN DIRITTO
il ricorso è infondato e va, pertanto rigettato, sia pur con le precisazioni che seguiranno, funzionali, ex art. 384 vecchio testo c.p.c., comma 2, (comma 4 nella nuova formulazione della norma) alla correzione della motivazione della sentenza impugnata (il cui dispositivo risulta, peraltro, conforme a diritto).
Il ricorso ripropone a questa Corte, nella sostanza, i medesimi temi svolti, in sede di appello, dinanzi al tribunale di Teramo.
Con il primo motivo, si duole, difatti, il ricorrente del difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, della sentenza impugnata sul punto della, ritenuta, legittimazione delle parti.
Il motivo non ha pregio.
Con motivazione esaustiva e scevra da vizi logico-giuridici, il giudice dell’appello ha ritenuto di ricostruire il rapporto tra l’agenzia e l’odierno ricorrente in termini di mandato con rappresentanza, ritenendo conseguentemente predicabile (del tutto legittimamente) l’esistenza di una indiscutibile legittimazione passiva in capo al mandante/rappresentante. Rilevato, in limine, come la doglianza mossa al folio 4 del ricorso – ove si legge che “il dedotto mandato con rappresentanza non è stato mai comunicato all’attuale deducente” – sia in realtà nuova (non essendo mai stata sollevata nei precedenti gradi di giudizio) e come tale inammissibile, nessuna delle censure mosse alla sentenza coglie nel segno, essendo, tutte, destinate ad infrangersi contro il corretto e condivisibile accertamento compiuto dai giudici di merito con riferimento al contenuto della scheda negoziale in contestazione, ed alla conseguente, ritenuta sussistenza della legittimazione a contraddire tra le parti: alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va in questa sede ribadito che, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al Giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (tra le tante, di recente, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al Giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca solo nella prospettazione di una diversamente anelata valutazione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.
Con il secondo motivo, lamenta ancora il ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’ art. 1463 c.c.; il difetto di motivazione sulla ritenuta ammissibilità della, risoluzione contrattuale.
Oggetto della censura (non diversamente da quanto già lamentato in grado di appello) è la ricostruzione del significato semantico, prima ancora che giuridico, della norma in contestazione, significato che, a detta della difesa del B., non potrebbe che articolarsi secondo la seguente scansione logico-lessicale: – la “prestazione dovuta” è quella divenuta impossibile; – l’impossibilità della prestazione deve essere “sopravvenuta” al contratto; – la “controprestazione” è quella possibile; – la “parte liberata” è quella che non può più adempiere.
Conseguentemente, “solo la parte obbligata alla prestazione divenuta impossibile avrebbe interesse, ex art. 100 c.p.c., a pretendere la propria liberazione dall’obbligazione, essendo concettualmente assurdo che tale domanda possa essere proposta dalla controparte che ha interesse all’adempimento della prestazione impossibile (semmai la controparte, a fronte dell’altrui inadempienza, avrebbe interesse a pretendere la declaratoria di risoluzione per inadempimento ex art. 1453)”.
Così rettalmente ricondotta la questione di diritto sottoposta al collegio al suo nucleo essenziale, essa andrebbe avviata a corretta soluzione sol che l’affermazione del tribunale – essere, cioè, divenuta impossibile la prestazione dell’albergatore – fosse sottoposta al necessario vaglio critico, onde concludere che l’obbligazione stessa, consistente nel “mettere a disposizione la struttura alberghiera secondo quanto contrattualmente concordato” non sarebbe mai stata, né sarebbe mai divenuta, “tecnicamente impossibile” a causa della morte del cliente.
L’errore di diritto in cui sarebbero caduti i giudici di merito si sarebbe pertanto ingenerato, perpetuandosi, all’esito dell’evidente confusione concettuale tra “prestazione” e (altrui) “godimento della prestazione”, poiché a divenire impossibile sarebbe stata, in realtà, “la sola fruizione, da parte dell’avente diritto, della prestazione dell’albergatore per fatto imputabile allo stesso avente diritto, laddove tale circostanza rimane del tutto irrilevante e incapace di incidere sul sinallagma contrattuale”. (Il motivo contiene un ulteriore sub-motivo – esposto al folio 11 del ricorso -, con il quale si lamenta ulteriormente una “ frettolosità del Giudice di merito” concretatasi nel non aver quegli adeguatamente considerato che la prestazione alberghiera era riferibile a due persone, sicché mai si sarebbe potuto dichiarare la risoluzione ex art. 1463 c.c., anche con riguardo al contratto relativo alla seconda persona, essendo deceduto il solo contraente D.L.: della rilevanza, della astratta fondatezza e della inaccoglibilità sul piano processuale di tale doglianza si dirà all’esito dell’esame della prima parte del motivo in esame).
La censura dianzi riportata, benchè suggestivamente esposta, non merita accoglimento, ma, sul punto, è necessario, come accennato in premessa, una integrazione in diritto del contenuto della motivazione della sentenza di appello oggi impugnata.
La prima e preliminare questione di diritto sottoposta all’esame di questo collegio è, dunque, quella dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione con riferimento al soggetto legittimato a rilevarla ed invocarla.
Va in premessa ricordato come comunemente vengano individuati, in dottrina, tre diverse ipotesi di impossibilità, la prima consistente nel perimento della cosa (al quale è parificato il suo smarrimento), la seconda integrante il caso della sua incommerciabilità, la terza. (che postula, come noto, più complesse valutazioni fattuali) predicabile nei casi di obbligazioni di fare, con particolare riguardo a fattispecie di impedimenti di carattere personale: in tali ipotesi, al fine della liberazione del debitore, viene comunemente sottolineato il necessario carattere di assolutezza e di obiettività della impossibilità stessa, concetto che, come sovente evidenziato ancora in dottrina, pare certamente applicabile (salvo poi valutare le cause della stessa impossibilità) ai casi di perdita delle facoltà fisiche necessarie per l’adempimento.
A tali requisiti, si suole poi aggiungere, alternativamente, quelli dell’infungibilità della prestazione divenuta impossibile e della riconducibilità del concetto di impossibilità alla prestazione e non alla persona del debitore. Un primo dato appare dunque certo, quello, cioè, per il quale ha carattere sicuramente liberatorio l’impossibilità fisica materiale, e per questo assoluta, del debitore.
L’analisi si sposta, così, sul piano degli effetti dell’impossibilità sopravvenuta: mentre la non imputabilità ad alcuna delle due parti è senz’ altro idonea ad attivare il meccanismo previsto dalla norma ex art. 1463 c.c., e mentre, pacificamente, di questa disposizione viene esclusa la applicabilità in caso di impossibilità imputabile al debitore, fortemente controversa risulta la conseguenza della impossibilità imputabile al creditore: la dottrina è, in proposito, divisa tra chi ritiene che i relativi effetti sarebbero del pari disciplinati dalla norma in parola, e chi, al contrario, ne opina la riconducibilità all’art. 1453, in quanto prodotti dall’inadempimento del creditore agli obblighi di cooperazione con il debitore nell’adempimento della prestazione di quest’ultimo.
Contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, anche in dottrina, oltre che nella risalente giurisprudenza di questa corte di cui a Cass. 23.8.1949 n. 2394 (pubblicata in una nota rivista giuridica l’anno successivo a quello del suo deposito), si ritiene configurabile l’ipotesi di impossibilità tanto unilaterale (ossia legata ad una sola delle contrapposte obbligazioni), quanto di entrambe le prestazioni dedotte in contratto.
Non erra il ricorrente nel sottolineare che il modus operandi del rimedio risolutorio non sia lo stesso per tutte le fattispecie previste dal codice, considerando che, nel caso di risoluzione per inadempimento, l’azione è rimessa alla facoltà dell’altro contraente (il non inadempiente), mentre, nel caso di impossibilità sopravvenuta, l’effetto risolutorio opera in modo automatico, con la liberazione del contraente obbligato alla prestazione divenuta impossibile: ma è altrettanto innegabile che (il dato è testuale nella norma di cui all’art. 1463 c.c.), nel caso in cui sia riscontrata l’impossibilità assoluta di effettuare la propria prestazione, la parte liberata non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.
Ciò comporta, quale definitivo approdo dell’esegesi del testo normativo, che la risoluzione de qua possa legittimamente essere invocata da entrambe le parti: da quella, cioè, la cui prestazione rimane possibile, così come da colui la cui prestazione sia divenuta impossibile (in tali sensi, in passato, Cass. 18.9.1956 n. 3222): non avrebbe altrimenti senso prevedere un rimedio restitutorio da indebito se non sulla premessa per cui la parte che abbia eseguito la propria prestazione (prestazione della quale, dunque, non avrebbe più senso discutere in termini di possibilità/impossibilità) può del tutto legittimamente richiedere alla controparte la restituzione a seguito dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione di controparte stessa.
Non è pertanto meritevole di accoglimento la doglianza contenuta nel motivo di ricorso in esame nella parte in cui vorrebbe allocare presso il solo obbligato alla prestazione impossibile l’interesse ad agire in giudizio (inconferente, dunque, è il richiamo all’art. 100 c.p.c.) per la propria liberazione: lo stesso interesse conserva, specularmente, la parte che, eseguita la propria prestazione – ipso facto possibile proprio perché (come nella specie)… già eseguita – ne richieda poi la restituzione a fronte della sopravvenuta impossibilità della prestazione di controparte.
Nella specie, la prestazione del cliente (pagamento di una somma di denaro a titolo di corrispettivo del soggiorno in albergo), possibile e già eseguita, non va incontro ad alcuna mutazione, Né genetica Né funzionale, a seguito della morte sopravvenuta alla stipula del contratto (nonché all’adempimento della propria obbligazione): la morte, difatti (come correttamente rileva, in proposito, il ricorrente), non è causa di impossibilità della prestazione del defunto (che l’ha già eseguita), bensì ragione di non fruibilità, da parte sua, della controprestazione offerta dall’albergatore.
L’analisi si sposta, allora, sugli aspetti contenutistici di quest’ultima obbligazione. Sostiene, difatti, il ricorrente, a fronte della (invero non esaustiva) ricostruzione operata in diritto dal Giudice di merito – il quale discorre di impossibilità della prestazione dell’albergatore senza ulteriori specificazioni al riguardo – che tale prestazione non sarebbe mai stata né mai sarebbe divenuta tecnicamente “impossibile” a causa della morte del cliente, pena una inammissibile confusione concettuale tra prestazione, da un canto, e fruizione (da parte del creditore) della prestazione, che, nella specie, consisterebbe (trovandovi al tempo stesso il suo insuperabile limite contenutistico – esecutivo) nel “mettere a disposizione la struttura alberghiera secondo quanto contrattualmente concordato”.
L’argomentazione non può essere condivisa.
È innegabile che, così articolata in parte qua la tesi difensiva, il discorso sia destinato ad orbitare, preliminarmente, sul piano del sinallagma contrattuale, id est della causa negoziale intesa nel suo aspetto funzionale.
Questa corte ha già avuto recentemente modo di affermare il principio secondo cui un concetto “di funzione astratta” di causa non può più ritenersi soddisfacente criterio di ermeneutica contrattuale, dovendosene più correttamente procedere, di converso, ad una ricostruzione in termini di “causa concreta”. (Cass. n. 10490 del 2006, che adotta tale criterio ricostruttivo dell’elemento causale del negozio con riferimento, peraltro, ad una vicenda nella quale il difetto di causa, emergeva sul piano non funzionale ma genetico, integrando conseguentemente una ipotesi di nullità contrattuale).
Il concetto di causa concreta non può, peraltro, non attenere altresì all’aspetto funzionale del predetto essentiale negotii.
Alla stregua del concetto di “causa negoziale concreta” va allora affermato che non soltanto la totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (id est, della sua esecuzione, tale da costituire un impedimento assoluto ed oggettivo a carattere definitivo) integra una fattispecie di automatica estinzione dell’obbligazione e risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte ai sensi dell’art. 1463 c.c., e art. 1256 c.c., comma 1, in ragione del venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte (Cass., 28/1/1995, n. 1037; Cass., 9/11/1994, n. 9304; Cass., 24/4/1982, n. 548; Cass., 14/10/1970, n. 2018), ma che lo stesso effetto consegue altresì alla impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore.
Tale principio di diritto risulta di recente affermato da questa stessa corte con la sentenza n. 16315 del 2007 (la fattispecie concreta di cui quel collegio ha avuto modo di occuparsi riguardava una vicenda relativa ad un soggiorno turistico all’estero dove una epidemia di dengue emorragica aveva indotto il contraente ad invocare la risoluzione del contratto di package).
Nella motivazione della sentenza (che afferma principi di diritto dai quali questo giudice non ha motivi per discostarsi) si rileva, in limine, come, nella specie, non fosse in realtà predicabile l’esistenza di un vero impedimento preclusivo dell’esecuzione dell’obbligazione, precisandosi, peraltro, che il soggiorno o il servizio alberghiero “assumono, al riguardo, rilievo non già singolarmente e separatamente considerati, bensì nella loro unitarietà funzionale, non potendo prescindersi dalla considerazione dei medesimi alla stregua della finalità turistica che la prestazione complessa in cui si sostanziano quali elementi costitutivi è funzionalmente volta a soddisfare.
Tale finalità non costituisce, pertanto, un irrilevante motivo del contratto de quo, e non si sostanzia in specifici interessi che rimangono nella sfera volitiva interna del creditore della prestazione alberghiera costituendo il semplice impulso psichico interiore che lo spinge alla stipulazione del contratto, ma viene (anche implicitamente) ad obbiettivarsi in tale tipo di contratto, divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, così connotandone la sua causa sul piano concreto” (in argomento, adde Cass. 12235/07 oltre alla già citata Cass. 10490/06).
Il concetto di causa concreta appare, così, funzionale, da un canto, a qualificare il “tipo” contrattuale – determinando l’essenzialità di tutte le attività e servizi strumentali alla realizzazione della finalità turistica (e cioè il benessere psico – fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare) -; dall’altro, assume rilievo quale criterio di adeguamento del rapporto negoziale, considerato nella suo aspetto dinamico-effettuale.
Di talchè la causa (come non si è mancato di osservare da parte della più attenta dottrina) finisce per assumere rilievo non meno decisivo in ordine alla sorte della vicenda contrattuale (oltre che con riferimento alla fattispecie negoziale considerata nel suo aspetto genetico), in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo sviluppo del rapporto (inadempimento, impossibilità, aggravio della prestazione, ecc.), eventi negativamente incidenti sull’interesse creditorio (nella specie, turistico), obbiettivato in seno all’elemento causale del contratto, e tali da farlo venire del tutto meno laddove – in base a criteri di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso – si accerti l’impossibilità, della relativa realizzazione. La sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione deve dunque distinguersi dalla sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione (in argomento, funditus, cfr. Cass., 2/5/2006, n. 10138) di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c., (cfr. ancora Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 28/1/1995, n. 1037 e la già citata Cass. 24/07/2007 n. 16315), ma, nella specie, soltanto sul piano concettuale, e non anche su quello degli effetti.
Il venire oggettivamente meno dell’interesse creditorio (nella specie, per la morte del soggetto) non può, difatti, che determinare l’estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto del suo elemento funzionale (art. 1174 c.c.): e se, come nella specie, tale rapporto obbligatorio trovi fonte in un contratto, il venir meno del predetto interesse si risolve in una sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto stesso, assumendo conseguentemente rilievo quale autonoma causa della relativa estinzione. Il venir meno dell’interesse creditorio (e della causa del contratto che ne costituisce la fonte) può essere, dunque, legittimamente determinato anche dalla sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, qualora essa si presenti come non imputabile al creditore, nonché oggettivamente incidente sull’interesse che risulta (anche implicitamente) obbiettivato nel contratto: una impossibilità tale da vanificare o rendere irrealizzabile la “finalità turistica” (laddove irrilevanti rimangono viceversa le finalità ulteriori per le quali il turista si induce a stipulare il contratto, quali il desiderio di allontanarsi dalla famiglia o dalla cerchia degli amici; l’esigenza di un distacco dall’ambiente di lavoro; la necessità di riprendersi da un periodo di stress; la ricerca di avventure post-matrimoniali ecc.) in cui si sostanziano, viceversa, i motivi impulsivi sottesi alla stipula del contratto da parte del creditore della prestazione di soggiorno alberghiero.
Così, pur essendo la prestazione in astratto ancora eseguibile, deve ritenersi che il venir meno della possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto (nel caso, lo “scopo di vacanza” in cui si sostanzia la “finalità turistica”), implica il venir meno dell’interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera giuridico – economico di quest’ultimo. Superando le perplessità in passato avvertite, in argomento, da questa stessa Corte (Cass., 9/11/1994, n. 9304), e in consonanza con quanto autorevolmente sostenuto in dottrina, va pertanto affermato che l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non disciplinata in modo espresso, costituisce – analogamente all’impossibilità di esecuzione della prestazione – autonoma causa di estinzione dell’obbligazione: essendo la prestazione divenuta inidonea a soddisfare l’interesse creditorio, la conseguente estinzione del rapporto obbligatorio scaturente dal contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della sua causa concreta comporta l’esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni: il debitore non è più tenuto ad eseguirla, il creditore non ha l’onere di accettarla.
Ad ulteriore conforto di tale conclusione va ricordato, ancora, l’orientamento recentemente espresso da questa stessa corte, a sezioni unite, in ordine alla necessità di un più penetrante controllo dell’autonomia privata da parte del Giudice in sede di tutela della parte “debole” di un rapporto contrattuale, orientamento puntualmente espresso nella sentenza n. 18128 del 2 005, con la quale le sezioni unite hanno sottolineato – in tema di rilevabilità d’ufficio della clausola penale – che “l’esegesi tradizionale della norma ex art. 1384 c.c., non appare più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti costituzionali in senso conformativo ai precetti superiori della Carta fondamentale – individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi, ex art. 2 Cost., e nell’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie -, integrati con i generali canoni di ermeneutica contrattuale quali quelli della buona fede oggettiva e della correttezza di cui agli artt. 1175, 1337, 1359, 1375 c.c.”.
La pronuncia evoca, del tutto condivisibilmente, quanto più volte affermato dalla stessa Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 19 del 1994, ha a sua volta sottolineato come “con riferimento a rapporti obbligatori disciplinati da norme inerenti all’ordinamento generale dello Stato” vada riconosciuta “l’esistenza di un principio di inesigibilità come limite superiore alle pretese creditorie”, principio a sua volta consacrato dal giudice delle leggi nella precedente sentenza n. 149 del 1992, ove si afferma che “l’interesse del creditore all’adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione deve essere inquadrato nell’ambito della gerarchia dei valori comportata dalle norme, di rango costituzionale e ordinario, che regolano la materia in considerazione: e quando, in relazione a un determinato adempimento, l’interesse del creditore entra in conflitto con un interesse del debitore tutelato dall’ordinamento giuridico o, addirittura, dalla Costituzione, come valore preminente o, comunque, superiore a quello sotteso alla pretesa creditoria, allora l’inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente collegato all’interesse di valore preminente, risulta giuridicamente giustificato”. Mette ancora conto di analizzare l’aspetto, evidenziato dal ricorrente nel sub-motivo 2, della limitazione al solo cliente deceduto di tale situazione oggettiva di impossibilità della controprestazione da parte del soggetto che, avendo già ricevuto la prestazione in denaro, è tenuto alla restituzione “secondo le norme relative all’indebito”.
Della questione (invero assai delicata, dacchè inferente la necessità di una più penetrante analisi del contenuto del contratto in contestazione sotto il profilo della sua esecuzione secondo buona fede e della attuazione di quegli obblighi di protezione accessori gravanti sul creditore) non può, peraltro, occuparsi la corte, attesane la evidente inammissibilità, essendo la stessa stata sollevata per la prima volta dal ricorrente in questa sede. (Né il collegio può affrontare la connessa questione della legittimazione attiva della odierna resistente, la questione, cioè, se ella abbia agito o meno, nella specie, nella – necessaria – qualità di erede del de cuius avente diritto alla restituzione, non avendo mai tale tematica costituito oggetto di dibattito nelle precedenti fasi processuali).
Con il terzo motivo, infine, si duole ancora il ricorrente di un supposto vizio di motivazione sul punto della ritenuta, inammissibilità per carenza d’interesse dell’eccezione di contraddittorietà della pronuncia di riduzione della somma ripetibile.
Il motivo è privo di pregio giuridico sul piano processuale.
Premessa l’astratta condivisibilità della censura in punto di diritto, del tutto legittimamente la corte di merito, con statuizione affatto immune da vizi logico-giuridici, ne ha poi statuito l’irrilevanza, e la conseguente inammissibilità, per l’attuale ricorrente (al quale non è, allo stato attuale della legislazione, consentita la proposizione di un ricorso nell’interesse della legge ex art. 363 vecchio e nuovo testo c.p.c.), per avere quest’ultimo, da tale error iuris, tratto l’indubbio beneficio di vedersi (indebitamente) ridurre il quantum restitutorio dovuto alla controparte.
Il ricorso è pertanto rigettato. La disciplina delle spese segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso.
Spese del giudizio di Cassazione compe