CORTE DI CASSAZIONE N. 2084/2019 – CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE – PIENA LEGITTIMITÀ FUNZIONE DISCIPLINARE – 24.01.2019

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza de qua, hanno confermato il carattere giurisdizionale delle decisioni del Consiglio nazionale forense, in quanto rese da un organo giurisdizionale dotato di propria autonomia ed imparzialità, seppur privo di apposita sezione disciplinare al suo interno. Nel caso di specie, il ricorrente – un legale di Brescia sanzionato dall’ordine di appartenenza con l’avvertimento per alcune inadempienze commesse in danno dei propri clienti – sosteneva che la mancata costituzione di apposita sezione disciplinare all’interno del CNF e la conseguente confusione delle funzioni giurisdizionali e amministrative dei suoi componenti, rendeva quest’ultimo privo di giurisdizione. Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso ritenendo che “non è in discussione la natura giurisdizionale delle decisioni assunte dal Consiglio nazionale forense, le quali sono rese da un organo giurisdizionale (giudice speciale istituito dal d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382, art. 21 e tuttora operante, in forza della previsione della 6″ disposizione transitoria della Costituzione), in base a norme che, quanto alla nomina dei componenti del medesimo CNF ed al procedimento di disciplina dei professionisti iscritti al relativo ordine, «assicurano, per il metodo elettivo della prima e per le sufficienti garanzie difensive proprie del secondo, il corretto esercizio della funzione giurisdizionale, affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo all’indipendenza del giudice ed alla imparzialità dei giudizi» (Cass. Sez.Un. 10/7/2017, n. 16993, ed ivi ampi richiami, tra cui Cass. Sez. Un. 23/03/2005, n. 6213)”. Tale pronuncia richiama un orientamento già espresso da questa Corte, secondo il quale la mancata costituzione di un’apposita sezione disciplinare all’interno del Consiglio nazionale forense non incide sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, né sull’imparzialità e sull’autonomia dell’organo giudicante, le quali sono comunque assicurate dalla sua composizione collegiale e dalla natura elettiva dei suoi componenti (Cass. Sez.Un. n. 17064/2011).

 

Dott. Simone Glovi

 

CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

SENTENZA N. 2084 DEL 24/01/2019

 

Presidente: DORONZO ADRIANA

Relatore: SPIRITO ANGELO

Data di pubblicazione: 24/01/2019

SENTENZA

sul ricorso 19141-2018 proposto da:

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell’avvocato G.M.C, rappresentato e difeso dall’avvocato F. P.; – ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BRESCIA, PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI BRESCIA, PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BRESCIA; – intimati –

avverso la sentenza n. 44/2018 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 14/05/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/12/2018 dal Consigliere ADRIANA DORONZO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale L.C., che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato F. P.

 

Svolgimento del processo

 

1.- A seguito di tre esposti, il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Brescia ha avviato tre procedimenti disciplinari nei confronti dell’avvocato M.P. con i capi di incolpazione che di seguito si riassumono:

i) violazione degli obblighi di cui agli artt. 6, 7, 8, 38, 40 e 42 del codice deontologico forense, per aver il professionista ricevuto nel 1999 da A.E.B. l’incarico di assisterlo con riferimento ad un infortunio senza: a) promuovere un giudizio; b) assumere le necessarie iniziative per tutelare l’assistito, lasciando così prescrivere il diritto; c) fornire al cliente adeguate informazioni, anzi fornendo informazioni non veritiere; d) restituire tutta la documentazione relativa all’incarico ricevuto anche a fronte della richiesta avanzata dal nuovo difensore dell’esponente;

ii) violazione degli artt. 8, 38,40 e 42 del codice deontologico forense per avere nell’anno 2007 instaurato un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo nell’interesse di F.C., omettendo di a) fornire al cliente un’adeguata assistenza nonché le necessarie informazioni circa gli esiti del giudizio, esponendo il cliente ad iniziative esecutive della controparte e del domiciliatario dell’avvocato Piazza, nonché alla condanna ai sensi dell’art. 96, comma 1, cod.proc.civ., b) restituire al cliente tutta la documentazione anche a fronte della richiesta avanzata dal nuovo difensore dell’esponente;

iii) violazione dei doveri previsti negli artt. 8, 38 e 40 del codice deontologico forense per avere nell’anno 2008 ricevuto l’incarico dalla signora D.A. di assisterla ai fini di ottenere il risarcimento dei danni per un infortunio, omettendo di a) assisterla; 2) fornirle le necessarie informazioni circa lo svolgimento dell’incarico, anzi fornendole aggiornamenti non veritieri.

2.- Il Consiglio dell’ordine, riuniti i tre procedimenti, ha irrogato la sanzione della censura. Per quel che ancora qui rileva, l’Organo disciplinare ha rigettato l’eccezione di prescrizione sollevata dall’incolpato in relazione al primo esposto, sul presupposto che il protrarsi della condotta omissiva non ne aveva consentito il decorso; ha ritenuto sussistente la responsabilità del professionista e, pur considerando gravi le violazioni commesse, ha irrogato la sola censura in ragione del fatto che, con riferimento al primo addebito, l’incolpato aveva corrisposto al cliente la somma di € 24.500,00 a titolo di risarcimento del danno subito, seppur sulla base della falsa rappresentazione di aver ottenuto una sentenza favorevole e di voler anticipare l’importo liquidato dal giudice a causa di alcune questioni ancora in sospeso.

3.- Contro la sentenza, l’avvocato P. ha proposto ricorso al Consiglio nazionale forense, il quale, in parziale riforma della decisione impugnata, con sentenza depositata in data 14 maggio 2018, ha riformato la decisione irrogando all’incolpato la sanzione dell’avvertimento.

A fondamento della sua decisione l’Organo superiore di disciplina, dopo aver rigettato i motivi concernenti la regolarità del procedimento, nel merito ha ritenuto sussistenti gli addebiti contestati e la responsabilità dell’incolpato, condividendo e facendo proprio il giudizio espresso dal Consiglio dell’ordine; in applicazione dell’art. 21 del nuovo codice deontologico professionale, ha poi applicato la meno grave sanzione dell’avvertimento, avuto riguardo alle circostanze soggettive e oggettive nel cui contesto erano avvenute le violazioni (pregiudizio subito dalla parte assistita, compromissione dell’immagine della professione forense, vita professionale e precedenti disciplinare,del professionista).

4.- Contro la sentenza l’avvocato P. ricorre per cassazione, articolando tre motivi; non hanno presentato difese gli intimati.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo il ricorrente deduce la carenza di giurisdizione del Consiglio nazionale forense sostenendo che la decisione era stata emessa non da un’apposita sezione disciplinare: la mancata costituzione di tale organismo, prevista dall’art. 61, comma 1, L. n. 247/2012, e la conseguente confusione delle funzioni giurisdizionali e amministrative dei suoi componenti, rendeva di per sé il Consiglio nazionale forense privo di giurisdizione, con il conseguente vizio insanabile della sentenza.

2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione di legge sotto il profilo della mancanza di motivazione della sentenza, la quale non rispetterebbe il cosiddetto «minimo costituzionale». In particolare, sotto un primo aspetto, si duole della omessa motivazione sul rigetto della censura con cui aveva eccepito l’illegittimità della riunione dei procedimenti; sotto altro aspetto, lamenta che l’Organo superiore di disciplina, pur avendo richiamato il principio secondo il quale il Consiglio nazionale forense può apportare le integrazioni ritenute necessarie per sostenere la motivazione resa in prima istanza, aveva omesso di illustrarle e svolgerle, risultando così carente la motivazione a fronte di censure specifiche.

3.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 51 del R.D. n. 1578/1933 e assume che, secondo i principi affermati da questa Corte, ai procedimenti disciplinari in corso al momento dell’entrata in vigore della L. n. 247/2012 non si applica la nuova normativa relativa ai termini di prescrizione: il termine di prescrizione da applicarsi era dunque quello quinquennale, con la conseguente erroneità della decisione del CNF nella parte in cui aveva escluso che, circa la vicenda del 1999, il fatto si sarebbe consumato nel dicembre 2006 (con la dazione della somma a titolo di risarcimento del danno) e l’esposto del 29/4/2012 e il decreto di citazione a giudizio del 13/11/2013 sarebbero intervenuti a termine già spirato.

4.- Il primo motivo è infondato.

4.1.- Non è in discussione la natura giurisdizionale delle decisioni assunte dal Consiglio nazionale forense, le quali sono rese da un organo giurisdizionale (giudice speciale istituito dal d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382, art. 21 e tuttora operante, in forza della previsione della 6″ disposizione transitoria della Costituzione), in base a norme che, quanto alla nomina dei componenti del medesimo CNF ed al procedimento di disciplina dei professionisti iscritti al relativo ordine, «assicurano, per il metodo elettivo della prima e per le sufficienti garanzie difensive proprie del secondo, il corretto esercizio della funzione giurisdizionale, affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo all’indipendenza del giudice ed alla imparzialità dei giudizi» (Cass. Sez.Un. 10/7/2017, n. 16993, ed ivi ampi richiami, tra cui Cass. Sez. Un. 23/03/2005, n. 6213).

4.2.- Con specifico riguardo all’indipendenza del giudice, all’imparzialità dei giudizi e alla garanzia del diritto di difesa (v. Corte cost. sent. n. 284 del 1986), si è ritenuta manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 24, 97 e 111 cost., la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni sul procedimento disciplinare innanzi al predetto Consiglio nazionale forense, non potendo incidere sulla legittimità costituzionale di detta normativa neppure la circostanza che al consiglio spettino anche funzioni amministrative, in quanto, come evidenziato dalla Corte costituzionale, non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare l’indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali (v., tra le altre, Corte cost., sent. n. 73 del 1970, n. 128 del 1974, n. 284 del 1986,cit.; v. pure Cass. Sez.Un. 8/8/2011, n. 17064).

4.3.- Tale posizione ed il correlativo rischio non sono riscontrabili nella fattispecie in esame, in cui le funzioni giurisdizionali sono esercitate dal Consiglio senza che sussista un rapporto di subordinazione verso alcun altro soggetto e quindi in piena autonomia: con l’evidente conseguenza che la loro coesistenza con quelle amministrative non importa il rischio sopra menzionato e pertanto non incide sull’indipendenza del Consiglio stesso né priva lo stesso delle funzioni giurisdizionali (cfr. Cass. Sez.Un. n. 17064/2011, cit.)

4.4.- Come è stato sottolineato dalla stessa Corte Costituzionale, anche gli organi della giurisdizione ordinaria, al pari del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, accanto alle funzioni tipiche, ne hanno altre di natura amministrativa (organizzazione degli uffici, vigilanza e controllo sul personale di cancelleria e subalterno, vigilanza sugli ufficiali dello stato civile, ecc.), senza che queste diminuiscano la loro indipendenza (Corte Cost. n. 284/1986).

4.5.- La giurisdizione professionale è, del resto, conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati e la Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata ad esaminare il medesimo problema (rispetto all’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata in Italia con I. 4 agosto 1955 n. 848), ha riconosciuto, con riguardo ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei medici belgi, la sussistenza del requisito dell’indipendenza degli organi della giurisdizione professionale (sent. 23 giugno 1981, nel caso Le Compte, Van Leuven, De Meyere e sent. 10 febbraio 1983, nel caso Albert e Le Compte), sottolineando che i membri dei collegi professionali partecipano al giudizio non già come rappresentanti dell’ordine professionale, e quindi in una posizione incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale, bensì a titolo personale e perciò in una posizione di «terzietà», analogamente a tutte le magistrature (ancora Corte Cost. n. 284/1986).

4.6.- Alla luce di questi principi, la mancata costituzione di un’apposita sezione disciplinare all’interno del Consiglio nazionale forense non incide sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, né sull’imparzialità e sull’autonomia dell’organo giudicante, le quali sono comunque assicurate dalla sua composizione collegiale e dalla natura elettiva dei suoi componenti (Cass. Sez.Un. n. 17064/2011, cit.).

5. Anche il secondo motivo è infondato.

5.1. Si legge nella sentenza impugnata: «La riunione (o separazione) dei procedimenti disciplinari rientra nella discrezionalità del giudice disciplinare e non comporta violazione del diritto di difesa poiché la riunione dei procedimenti risponde all’esigenza di comminare una sanzione unica per il comportamento complessivo dell’incolpato (Cass. 10/12/2013, n. 27492, e Cons. Naz. Forense 28/12/2015 n. 206)». Non sussiste dunque il denunciato vizio di violazione di legge sotto il profilo della mancanza assoluta di motivazione o della motivazione apparente, dal momento che l’organo giudicante ha espressamente manifestato le ragioni poste a base del rigetto della censura.

5.2.- Tali ragioni sono conformi a quanto statuito da questa Corte nei procedimenti disciplinari a carico di magistrati, in cui si è precisato che la riunione di più procedimenti pendenti a carico dell’incolpato costituisce esercizio di poteri discrezionali del giudice disciplinare ed è giustificata, pur quando fra i fatti oggetto delle rispettive incolpazioni non vi sia connessione, dalla necessità di tenere conto della complessiva condotta dell’incolpato ai fini del giudizio richiesto dall’art. 18 del r.d.l. n. 511 del 1946 (Cass. Sez. Un. 05/08/1993, n. 8550). Si tratta di enunciati espressione di un principio di carattere più generale, valido anche per il giudizio penale (cfr. Cass. pen. 20/01/2014, n. 27958).

5.3.- A tanto deve aggiungersi che il ricorrente non prospetta neppure in questa sede le ragioni per le quali l’asserita violazione della regola processuale avrebbe in concreto comportato una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito, rilevandosi in proposito che la scelta della sanzione (peraltro la più mite) da parte del CNF non risulta in alcun modo determinata, in senso sfavorevole per il ricorrente, da un supposto collegamento tra le varie infrazioni, ciascuna delle quali avrebbe operato come precedente disciplinare rispetto alle altre. Il motivo si presenta, dunque, oltre che infondato, inammissibile per difetto di interesse (cfr. Cass. 18/12/2014, n. 26831). 6. Il vizio di violazione di legge non sussiste neppure sotto il secondo profilo denunciato. Secondo la giurisprudenza consolidata, «le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 56 del r.d.l. n. 1578 del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, nonché, ai sensi dell’art. 111 Cost., per vizio di motivazione» (Cass. Sez.Un. 31/7/2018, n. 20344, che richiama Cass. Sez. Un. 20/9/2016, n. 18395; Cass. Sez. Un. 22/7/2016, n. 15203; v. pure Cass. Sez.Un. 02/12/2016, n. 24647; Cass. Sez.Un. 19/10/2011, n. 21584; Cass. Sez.Un. 4/2/2009, n. 2637; Cass. Sez.Un. 13/07/2005, n. 14700).

6.1.- Quanto al vizio di motivazione, deve rilevarsi che il presente ricorso è, ratione temporis, soggetto all’applicazione dell’art. 360, n. 5, cod.proc.civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22/6/2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 7/8/2012, n. 134. In relazione a tale modificazione, queste Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., deve essere interpretata come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Cass., Sez. Un. 7/4/2014, n. 8053, richiamata da Cass. Sez.Un. n. 18395/2016 cit.). 6.2. – Ne consegue che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (Cass. Sez.Un. 31/07/2018, n.20344).

6.3.- Ora, dalle argomentazioni svolte dal ricorrente, emerge con chiarezza che non è questa anomalia motivazionale ad essere denunciata, ma al più un’insufficiente motivazione sull’accertamento in fatto delle condotte oggetto delle incolpazioni.

Il ricorrente, infatti, lamenta che tanto il Consiglio dell’ordine degli avvocati quanto il Consiglio nazionale forense hanno fondato la loro decisione unicamente sugli esposti presentati, senza che fosse valutata l’attendibilità degli esponenti e senza che l’Organo superiore di disciplina, pur avendo precisato di averne il potere, avesse proceduto ad integrare il giudizio in fatto e in diritto della decisione del COA.

6.4.- Si tratta, all’evidenza, di censure che involgono l’apprezzamento tipicamente fattuale del giudice del merito circa l’attendibilità dei testimoni, che è insindacabile in sede di legittimità, ove sia logicamente e congruamente motivato: logicità e congruenza che non sono scalfite dai motivi di ricorso e che sono comunque riscontrabili ove si consideri che, con riguardo al primo capo di incolpazione, il giudizio di responsabilità è stato formulato anche sulla base delle ammissioni di responsabilità dell’avvocato P., che ha solo escluso il rilievo disciplinare della sua condotta in ragione dell’avvenuto risarcimento del danno (pag. 6 della sentenza, nonché pagg. 20 e 21 del ricorso).

6.5. – Con riguardo agli altri due capi, è la natura stessa delle censure ad escludere che vi sia il denunciato vizio di motivazione, nella sua nuova declinazione, giacché, esse sono volte – piuttosto che ad evidenziare l’omesso esame di circostanze decisive favorevoli all’incolpato o l’intrinseca contraddittorietà della motivazione – a criticare il ragionamento del giudice di merito e a formulare una diversa ricostruzione dei fatti sulla base di congetture e giudizi di verosimiglianza, che non rendono di per se stessi implausibili o intrinsecamente incongrue le diverse conclusioni cui sono pervenuti gli organi di disciplina.

6.6.- Per completezza, deve osservarsi che è privo del carattere della decisività, oltre che del legame di necessità causale tra il fatto noto e quello ignoto, il rilievo della contemporanea pendenza del giudizio arbitrale e di quello di opposizione a decreto ingiuntivo (che vedevano interessato C.), per desumere dall’assolvimento del dovere di informazione con riguardo al primo giudizio l’assolvimento dello stesso dovere con riguardo al secondo; così come, per il terzo capo di incolpazione, nessuna incidenza rivestono sul giudizio circa l’attendibilità della A. le dichiarazioni dell’avvocato F. B., nuovo legale della esponente, di non essere a conoscenza diretta di fatti o circostanze riguardanti l’avvocato P., non potendosi dalle stesse escludere l’esistenza dei contatti tra i due professionisti riferiti nell’esposto.

6.7.- In altri termini e conclusivamente, in nessuna parte la decisione presenta contraddizioni o vizi logici, essendo possibile, in relazione a tutti i punti per cui si è ritenuto di dover confermare il giudizio emesso dal Consiglio territoriale, la ricostruzione della ratio decidendi che ha sostenuto la decisione.

7.-Anche il terzo motivo è infondato. Il Consiglio nazionale forense, dopo aver richiamato i principi espressi da questa Corte, secondo cui la nuova disciplina della prescrizione introdotta dall’art. 56 della L. 31/12/2012, n. 247 non si applica ai procedimenti in corso, ha escluso il decorso stesso della prescrizione in ragione della condotta omissiva ascritta all’avvocato P., dell’irrilevanza ai fini della cessazione della permanenza del versamento della somma di C 24.500 al signor B. e del principio di diritto secondo cui il dies a quo della prescrizione, in caso di illecito deontologico permanente, decorre dal momento della cessazione della condotta (richiamando Cass. 14/6/2016, n.12196).

7.1.- Il ricorrente assume che per effetto del pagamento, avvenuto nel 2006, o al più per effetto della lettera inviatagli dal nuovo difensore del B., datata 23/4/2008, e dunque contestualmente alla cessazione del suo rapporto con il cliente per effetto dell’instaurazione di un nuovo rapporto professionale, l’illecito deontologico sarebbe cessato, ma si tratta di affermazione che non tiene conto che tra i capi di incolpazione vi è anche l’omessa restituzione al cliente di tutta la documentazione, rispetto alla quale la permanenza non può dirsi cessata, in difetto di ogni riscontro desumibile dalla sentenza impugnata nonché di allegazioni del ricorrente supportate dalla necessaria autosufficienza.

8.- Il ricorso deve pertanto essere rigettato. Nessun provvedimento sulle spese deve adottarsi in mancanza di attività difensiva svolta dalle controparti. Poiché il ricorso è stato notificato in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1, del d.p.r. 115/2002. In tema di impugnazioni, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del detto versamento non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. ord.13 maggio 2014 n. 10306).

P.Q. M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1, quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 4 dicembre 2018

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