Corte Costituzionale Sentenza n. 30 – Equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo -Termine per la proposizione della domanda -25.02.2014. –

Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Procedimento civile – Equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo -Termine per la proposizione della domanda. – Decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, art. 55, comma 1, lettera d). – (GU 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale n.11 del 5-3-2014)

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente:Gaetano SILVESTRI;

Giudici :Luigi MAZZELLA,  Sabino  CASSESE,  Giuseppe  TESAURO,  Paolo

  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,  Alessandro  CRISCUOLO,  Paolo

  GROSSI, Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Sergio

  MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

    nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art.  55,  comma 1, lettera d), del  decreto-legge  22  giugno  2012,  n.  83  (Misure urgenti per la crescita del paese),  convertito,  con  modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134,  sostitutivo

dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89,  promosso  dalla  Corte d’appello di Bari, prima sezione civile,  nel  procedimento  vertente tra D’Aversa Concettina e il Ministero della giustizia, con ordinanza

del 18 marzo 2013, iscritta al n. 151 del registro ordinanze  2013  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  26,  prima serie speciale, dell’anno 2013.

    Visto l’atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 15 gennaio  2014  il  Giudice relatore Aldo Carosi.

 

Ritenuto in fatto

 

    1.- Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d’appello di  Bari, prima  sezione  civile,  ha  sollevato  questione   di   legittimita’ costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d),  del  decreto-legge

22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita  del  Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,  della  legge  7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma,

e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest’ultimo  in  relazione all’art.  6,  paragrafo  1,  della   Convenzione   europea   per   la salvaguardia dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’  fondamentali

(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

    Riferisce il  giudice  a  quo  che  la  ricorrente  del  giudizio principale, lavoratrice dipendente di  un  imprenditore  individuale, nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore di  lavoro, per  ottenere  il  pagamento  di   alcune   differenze   retributive. Interrottosi il giudizio a causa del  fallimento  del  convenuto,  in data 27 marzo 1997 la ricorrente aveva chiesto di essere  ammessa  al passivo fallimentare,  ottenendo  l’ammissione  del  credito  per  un importo pari ad euro 6.878,47. Di  tale  somma  la  ricorrente  aveva ricevuto dei pagamenti parziali (nel 2002 e nel 2010) per  un  totale di  euro  6.541,32.  Ancora  creditrice  del  residuo,  con   ricorso depositato il 19  dicembre  2012,  aveva  adito  la  Corte  d’appello

rimettente, chiedendo l’indennizzo  del  danno  non  patrimoniale  da eccessiva durata della procedura concorsuale  (quantificato  in  euro 8.000,00), oltre accessori e spese legali, sebbene  detta  procedura,

come da attestazione della cancelleria del tribunale fallimentare del 14 febbraio 2013,  fosse  ancora  pendente  e  non  fosse  definitiva l’attribuzione della minor somma rispetto a quella ammessa al passivo

fallimentare.

    1.1.- Ad avviso del giudice a quo, l’art. 4 della legge 24  marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e  modifica  dell’articolo  375  del

codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma  1, lettera  d),  del  d.l.  n.  83  del  2012  –  prevedendo  nel  testo attualmente in vigore che «La  domanda  di  riparazione  puo’  essere

proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in  cui  la decisione che  conclude  il  procedimento  e’  divenuta  definitiva», precluderebbe la  proposizione  della  domanda  di  equa  riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione  si assume verificata.

    Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l’art. 3  Cost.,  in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi  lamenti  l’eccessiva durata di un processo che si e’ concluso, e non anche a chi si  dolga

dell’eccessiva durata  di  quello  ancora  pendente,  nonostante  nel secondo caso la lesione appaia piu’ grave.  Siffatta  discriminazione non sarebbe giustificata dall’esigenza di permettere una  valutazione

unitaria dell’intero  processo,  considerato  che  l’improponibilita’ della domanda sussisterebbe anche in caso di  notevole  ritardo  gia’ maturato,  peraltro  con  riferimento  al   diritto   primario   alla

retribuzione lavorativa.

    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  inoltre,  la  norma  censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., «in quanto il diritto di agire  per  l’equa  riparazione  costituisce  ormai  una   forma   di attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del processo presupposto».

    Il rimettente, infine, ritiene che il  testo  dell’art.  4  della legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto) attualmente  in  vigore violi l’art.  117,  primo  comma,  Cost.  in  relazione  all’art.  6, paragrafo 1, della CEDU. Sostiene al riguardo che tale  disposizione, pur obbligando gli Stati aderenti a garantire il diritto delle  parti all’esame della loro causa entro un tempo ragionevole, non imponga la previsione di specifici rimedi risarcitori  in  caso  di  violazione.

Tuttavia, quale forma di attuazione del principio  di  sussidiarieta’ nella tutela del diritto,  il  rimedio  previsto  dalla  legge  Pinto sarebbe visto con favore dalla Corte EDU,  tanto  da  rimettere  alla

giurisdizione interna le  richieste  di  risarcimento  del  danno  da eccessiva durata del processo in  quegli  ordinamenti  in  cui  erano state assunte omologhe iniziative legislative. In tale  contesto,  il predetto   rimedio   dovrebbe    essere    dotato    del    carattere dell’effettivita’ e consentire la massima conformazione possibile del giudice  nazionale  alla  CEDU,  come  interpretata  dalla  Corte  di Strasburgo. Diversamente, la norma censurata avrebbe configurato solo in apparenza un adempimento al  vincolo  convenzionale,  impedendo  -secondo il significato univocamente  attribuibile  alla  disposizione

censurata,     che      ne      precluderebbe      un’interpretazione «convenzionalmente»  orientata  –  l’esperibilita’  del  rimedio   in relazione ai cosiddetti processi presupposti non ancora  definiti  ma

gia’ di durata irragionevole.  Con  riferimento  ad  essi,  la  parte danneggiata potrebbe soltanto rivolgersi alla Corte EDU per  ottenere il risarcimento, anche in casi, come nella specie, di  grave  ritardo

nella  soddisfazione  di  un  diritto  primario.  Tale   preclusione, peraltro, non si giustificherebbe con il fine  di  ridimensionare  la problematica  dell’eccessiva  durata  dei  processi,  che  rimarrebbe

inalterata.

    1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente premette che,  secondo la giurisprudenza di legittimita’, per il creditore  fallimentare  la durata della  procedura,  rilevante  ai  fini  della  valutazione  di ragionevolezza, si calcola dalla data di proposizione  della  domanda di ammissione al passivo, mentre il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione e’ individuato nel momento in cui il decreto di chiusura del  fallimento assume definitivita’  o  con  quello  dell’eventuale  soddisfacimento integrale del credito ammesso al passivo,  senza  che  abbia  rilievo l’esecuzione di ripartizioni parziali in corso  di  procedura.  Sulla base di tali premesse, la Corte d’appello  di  Bari  esclude  che  la domanda di equa riparazione formulata dalla ricorrente  sia  tardiva, in mancanza di definizione della procedura presupposta e  di  rilievo dei riparti parziali, ritenendola peraltro prematura alla stregua del nuovo testo dell’art. 4, che non contiene piu’ l’inciso  secondo  cui la domanda di riparazione «puo’ essere proposta durante  la  pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume  verificata».

Tale eliminazione, unitamente al mantenimento del termine  semestrale di decadenza, avrebbe  il  significato  univoco  di  precludere,  dal momento di  entrata  in  vigore  del  predetto  testo  di  legge,  la

proposizione della domanda di equa riparazione quando il procedimento presupposto sia ancora pendente.

    Nel caso di specie, poiche’ la ricorrente del giudizio principale ha  agito  per  l’equa  riparazione  nel   corso   del   procedimento presupposto, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 89 del  2001  –  nel

testo applicabile ratione temporis  –  la  domanda,  diversamente  da quanto in precedenza previsto, non sarebbe  proponibile,  sebbene  il fallimento duri da un tempo (oltre quindici anni)  ben  superiore  al termine di sei anni considerato ragionevole dall’art. 2, comma 2-bis, della legge Pinto, per la conclusione di  procedure  concorsuali  non particolarmente complesse.

    2.- Con atto depositato il  16  luglio  2013  e’  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e difeso    dall’Avvocatura    generale    dello    Stato,    deducendo

l’inammissibilita’ e l’infondatezza della questione sollevata.

    2.1.- Secondo il Presidente del Consiglio, la  questione  sarebbe inammissibile  per  insufficiente   descrizione   della   fattispecie sottoposta all’esame del rimettente, il  quale  non  avrebbe  fornito

nessuna concreta indicazione  sullo  stato  attuale  della  procedura fallimentare, impedendo di ritenere la  sicura  applicabilita’  della norma censurata nel giudizio a quo.

    Inoltre, ad avviso della difesa statale, la pretesa  indennitaria vantata dalla ricorrente nel  giudizio  principale,  quantificata  in euro  8.000,00,  potrebbe  ritenersi   inaccoglibile   alla   stregua

dell’art. 2-bis, comma 3, della legge n. 89 del 2001, secondo cui  la misura dell’indennizzo non puo’ mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice, con riverbero

sulla rilevanza della questione sollevata.

    2.2.- Ad  avviso  del  Presidente  del  Consiglio,  la  questione sarebbe in ogni caso infondata nel merito.

    La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell’ambito  di  un piu’  ampio  intervento  normativo  finalizzato  ad   accelerare   la procedura per ottenere l’indennizzo da eccessiva durata dei processi,

nell’intento di rendere effettivi i principi di cui agli artt.  24  e 111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e di ragionevole durata del processo. Tale intervento, inoltre, mirerebbe a ridurre il

contenzioso  davanti  alla  Corte  EDU  per  l’eccessiva  durata  dei processi e per il ritardo nel pagamento degli  indennizzi  liquidati, cosi’  come  riconosciuto  nel  maggio  del  2013   dall’Ufficio   di monitoraggio dell’esecuzione delle decisioni CEDU.

    L’intervenuto sostiene che l’art. 4 della legge n. 89  del  2001, nella originaria formulazione, che consentiva la proponibilita’ della domanda di equa riparazione in  pendenza  del  processo  presupposto,

comportava la difficolta’ pratica di determinare la  maturazione  del diritto ed il frazionamento della pretesa,  con  onerose  conseguenze per il bilancio dello Stato. La sostituzione operata dall’art. 55 del

d.l. n. 83 del 2012, accompagnata all’adozione del modulo del ricorso monitorio ed alla  previsione  di  criteri  corrispondenti  a  quelli enunciati dalla giurisprudenza nazionale e della Corte EDU  quanto  a

durata ragionevole e misura  dell’indennizzo,  non  precluderebbe  il soddisfacimento  del  diritto,   ma   solo   il   suo   differimento, giustificato alla stregua delle esigenze menzionate. Si evita, in tal modo, un inutile dispendio di risorse  pubbliche  per  effetto  della deflazione del contenzioso, assicurando al contempo il buon andamento dell’amministrazione della giustizia. Le considerazioni che precedono

escluderebbero  la  denunciata  disparita’  di  trattamento   ed   il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost.  Il  differimento, inoltre, non inciderebbe sull’effettivita’ del rimedio  indennitario,

che rimarrebbe intatto nella sostanza, salvo essere posticipato, alla definizione del giudizio presupposto, cosi’ imponendo alla parte  una correttezza di comportamento in  linea  con  l’esigenza  generale  di

economia processuale.

 

Considerato in diritto

 

    1.- Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d’appello di  Bari, prima  sezione  civile,  ha  sollevato  questione   di   legittimita’ costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d),  del  decreto-legge

22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita  del  Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,  della  legge  7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma,

e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest’ultimo  in  relazione all’art.  6,  paragrafo  1,  della   Convenzione   europea   per   la salvaguardia dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’  fondamentali

(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

    Il giudice  a  quo  riferisce  che  la  ricorrente  del  giudizio principale, lavoratrice dipendente di  un  imprenditore  individuale, nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore  di  lavoro

per  ottenere  il  pagamento  di   alcune   differenze   retributive.

Interrottosi il giudizio a causa del  fallimento  del  convenuto,  in data 27 marzo 1997 aveva chiesto ed ottenuto  di  essere  ammessa  al passivo fallimentare.  Ricevuti  dei  pagamenti  parziali  ed  ancora

creditrice del residuo, con ricorso depositato il  19  dicembre  2012 aveva adito la Corte d’appello rimettente, chiedendo, ai sensi  della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di

violazione  del  termine  ragionevole   del   processo   e   modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – cosiddetta  legge Pinto – l’indennizzo del danno non patrimoniale da  eccessiva  durata

della  procedura   concorsuale,   sebbene   quest’ultima,   come   da attestazione della  cancelleria  del  tribunale  fallimentare,  fosse ancora pendente.

    Ad avviso del giudice a quo, l’art. 4 della legge  Pinto  –  come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 – precluderebbe la proposizione della  domanda  di  equa  riparazione

durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione  si assume verificata.

    Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l’art. 3  Cost.,  in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi  lamenti  l’eccessiva durata di un processo che si  e’  concluso  e  non  a  chi  si  dolga

dell’eccessiva durata di quello che  non  si  e’  ancora  concluso  – nonostante nel secondo caso la lesione  appaia  piu’  grave  –  anche quando sia gia’ maturato un notevole ritardo e con riferimento ad  un

diritto primario quale quello alla retribuzione lavorativa.

    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  inoltre,  la  norma  censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto il diritto  di agire  per  l’equa  riparazione  costituirebbe  ormai  una  forma  di

attuazione  indiretta  del  diritto  alla  ragionevole   durata   del cosiddetto processo presupposto.

    Il rimettente, infine, ritiene che la versione dell’art. 4  della legge  Pinto  applicabile  alla  fattispecie  oggetto  del   giudizio principale violi l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art.

6, paragrafo 1, della CEDU. Il rimedio interno previsto  dalla  legge Pinto  dovrebbe  essere  dotato  del  carattere  dell’effettivita’  e consentire la massima conformazione possibile del  giudice  nazionale

alla CEDU come interpretata dalla  Corte  di  Strasburgo.  Cosi’  non sarebbe per effetto della norma censurata, che configurerebbe solo in apparenza  un  adempimento  al   vincolo   convenzionale,   impedendo l’esperibilita’ del rimedio in relazione ai processi presupposti  non

ancora definiti ma gia’ di durata irragionevole.

    E’ intervenuto  in  giudizio  il  Presidente  del  Consiglio  dei ministri, secondo il quale la  questione  sarebbe  inammissibile  per insufficiente descrizione della fattispecie sottoposta all’esame  del

rimettente, che non  avrebbe  fornito  nessuna  concreta  indicazione sullo  stato  attuale  della  procedura  fallimentare,  impedendo  di ritenere la sicura applicabilita’ della norma censurata.

    Inoltre, ad  avviso  dell’intervenuto,  la  pretesa  indennitaria vantata dalla ricorrente nel  giudizio  principale,  quantificata  in euro 8.000,00 a fronte dell’ammissione al  passivo  fallimentare  per

euro 6.878,47, sarebbe inaccoglibile alla  stregua  dell’art.  2-bis, comma 3, della legge Pinto, secondo cui la misura dell’indennizzo non puo’ mai superare il valore della causa o, se inferiore,  quello  del

diritto accertato dal giudice, con riverbero  sulla  rilevanza  della questione sollevata.

    Nel merito, secondo il  Presidente  del  Consiglio  la  questione sarebbe infondata.

    La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell’ambito  di  un piu’  ampio  intervento  normativo  finalizzato  ad   accelerare   la procedura per ottenere l’indennizzo dovuto per l’eccessiva durata dei

processi, nell’intento di rendere effettivi i principi  di  cui  agli artt. 24 e 111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e  di ragionevole durata del processo. Tale intervento, inoltre,  mirerebbe

a ridurre il contenzioso  davanti  alla  Corte  EDU  per  l’eccessiva durata dei processi e per il ritardo nel pagamento  degli  indennizzi accordati.

    Secondo l’intervenuto, l’art. 4  della  legge  Pinto,  nella  sua originaria formulazione, consentendo la proponibilita’ della  domanda di equa riparazione in pendenza del processo presupposto,  comportava

la difficolta’ pratica di determinare la maturazione del  diritto  ed il frazionamento  della  pretesa,  con  onerose  conseguenze  per  il bilancio dello Stato. La sua  sostituzione  ad  opera  dell’art.  55,

comma  1,  lettera  d),  del  d.l.  n.  83  del  2012,   accompagnata all’adozione del modulo del ricorso monitorio ed alla  previsione  di criteri  corrispondenti  a  quelli  enunciati  dalla   giurisprudenza

nazionale e della Corte EDU quanto  a  durata  ragionevole  e  misura dell’indennizzo, non precluderebbe il soddisfacimento del diritto, ma

solo il suo differimento, giustificato alla  stregua  delle  esigenze menzionate,  evitando  un  inutile  dispendio  di  risorse  pubbliche attraverso la deflazione del contenzioso ed assicurando  al  contempo

il buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

    2.- Prima di affrontare l’esame della questione proposta e  delle eccezioni sollevate dalla difesa erariale, e’  opportuno  dar  conto, seppur sinteticamente, della genesi della legge Pinto, intervenuta in

un  contesto  di  riconoscimento  del   bene   costituzionale   della ragionevole durata del processo, «che, gia’  implicito  nell’art.  24 Cost., e’ ora oggetto  di  specifica  enunciazione  nel  nuovo  testo

dell’art. 111 Cost., sulla scia dell’art. 6 della Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell’uomo   e   delle   liberta’ fondamentali» (ordinanza n. 305 del 2001).

    Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89 del 2001 si individuano nella  necessita’  di  prevedere  un  rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei

processi, in modo da  realizzare  la  sussidiarieta’  dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dall’art.  35  della CEDU – secondo cui: «la Corte non  puo’  essere  adita  se  non  dopo

l’esaurimento delle vie di ricorso interne […]» – e su cui si fonda il sistema europeo di protezione  dei  diritti  dell’uomo.  Da  detto principio di sussidiarieta’ deriva il dovere degli  Stati  che  hanno

ratificato la Convenzione di garantire agli individui la  tutela  dei diritti da essa riconosciuti in modo «effettivo» (ai sensi  dell’art.

13 della CEDU), ossia tale da porre rimedio alla doglianza, senza  la necessita’ di adire la Corte EDU. Prima della legge n.  89  del  2001 non esisteva nell’ordinamento italiano un  rimedio  interno,  con  la

conseguenza che i ricorsi contro l’Italia per la violazione dell’art. 6  della  CEDU  venivano  indirizzati  direttamente  alla  Corte   di Strasburgo,  sovraccaricandone  il  ruolo.   A   fronte   di   simile

situazione, la Corte EDU rilevava come  le  inadempienze  dell’Italia riflettessero una situazione perdurante, «alla quale non si e’ ancora rimediato e per la quale i soggetti  a  giudizio  non  dispongono  di

alcuna via di ricorso interna.  Tale  accumulo  di  inadempienze  e’, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione» (sentenze 28 luglio 1999, Bottazzi contro  Italia,  Di  Mauro  contro

Italia, Ferrari contro Italia ed A.P. contro Italia).

    L’originario tessuto normativo della legge  n.  89  del  2001  ha subito significative modifiche – appresso meglio precisate – ad opera dell’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012.

    In particolare, l’art. 4 della legge Pinto  e’  stato  sostituito dalla norma impugnata.

    La  disposizione  originaria  prevedeva  che:  «La   domanda   di riparazione puo’ essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena  di

decadenza, entro sei mesi  dal  momento  in  cui  la  decisione,  che conclude il medesimo procedimento, e’ divenuta definitiva».

    A  seguito  della  sostituzione,  l’art.  4  della  legge   Pinto stabilisce che: «La domanda di riparazione puo’  essere  proposta,  a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che

conclude il procedimento e’ divenuta definitiva».

    Il nuovo  testo,  sul  piano  puramente  letterale,  non  esclude espressamente la proponibilita’ della  domanda  di  equa  riparazione durante la pendenza del processo presupposto.

    Alla    esclusione    tuttavia     si     perviene     attraverso un’interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull’intenzione del legislatore, come emerge: a) dal  fatto  che  la  nuova  versione

differisce dalla previgente unicamente per  l’espunzione  dell’inciso che consentiva la proponibilita’ «durante  la  pendenza»,  altrimenti inspiegabile; b) dalla lettura della disposizione unitamente all’art.

3 della legge Pinto, che al comma 1 prevede che «La domanda  di  equa riparazione  si  propone  con  ricorso  al  presidente  della   corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi

dell’articolo 11 del codice  di  procedura  penale  a  giudicare  nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto e’ concluso o estinto relativamente ai gradi di  merito  il  procedimento  nel  cui

ambito la violazione si assume verificata.  […]»  ed  al  comma  3, lettera  c),  dispone  che:  «Unitamente  al  ricorso   deve   essere depositata copia autentica dei seguenti atti: […] il  provvedimento

che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con  sentenza od ordinanza irrevocabili» – previsioni, queste,  che  non  avrebbero senso ove dovesse continuarsi ad ammettere  la  proponibilita’  della

domanda nel corso del processo presupposto; c) dal condizionamento di an e quantum del diritto all’indennizzo (tale qualificato dalla legge medesima)  alla  definizione  del  giudizio,   come   meglio   verra’

precisato; d) dall’obbiettivo dichiarato nella relazione  al  disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 83 del 2012  di  ridurre il carico gravante sulle corti d’appello  rappresentato  dai  ricorsi

per equa riparazione;  e)  dai  lavori  preparatori  della  legge  di conversione.

    Alla luce delle considerazioni che precedono,  si  deve  ritenere che la norma censurata precluda la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione

della ragionevole durata si assume essersi verificata.

    3.-    Tanto    premesso,    sono    infondate    le    eccezioni d’inammissibilita’ sollevate dalla difesa erariale.

    In primo luogo, essa  deduce  l’insufficiente  descrizione  della fattispecie da parte del rimettente, che non avrebbe fornito  nessuna concreta   indicazione   sullo   stato   attuale   della    procedura

fallimentare, impedendo di ritenere senz’altro applicabile  la  norma censurata.

    La  circostanza  e’  chiaramente   smentita   dall’ordinanza   di rimessione, in cui il giudice a quo riferisce  espressamente  che  la domanda di equa riparazione –  cui,  ratione  temporis,  deve  essere

applicata la norma impugnata – e’ stata proposta quando la  procedura concorsuale era ancora pendente, come certificato  dalla  cancelleria del tribunale fallimentare.

    In secondo luogo, il  Presidente  del  Consiglio  assume  che  la domanda avanzata nel giudizio principale non potrebbe essere  accolta in ragione dell’art. 2-bis, comma 3, della legge Pinto,  secondo  cui

la misura dell’indennizzo non puo’ mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal  giudice.  Cio’  in quanto la ricorrente ha quantificato l’indennizzo richiesto  in  euro

8.000,00 a fronte di un credito ammesso al passivo fallimentare  solo per l’ammontare di euro 6.878,47.

    L’eccezione deve essere  respinta,  atteso  che  il  ricorso  ben potrebbe essere accolto per  il  minore  importo  rispetto  a  quello domandato, come peraltro  e’  implicitamente  previsto  dall’art.  3,

comma 6, della legge Pinto, laddove consente l’opposizione  nel  caso

di accoglimento parziale.

    4.-  Nondimeno,  la  questione  di  legittimita’   costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera  d),  del  d.l.  n.  83  del  2012  in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma,  e  117,  primo  comma,

Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU – e’  inammissibile  per  due  ordini  di  ragioni,  inscindibilmente connessi. Infatti, l’intervento additivo invocato  dal  rimettente  –

consistente  sostanzialmente  in  un’estensione   della   fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a  quella  caratterizzata  dalla  pendenza  del  giudizio  –  non  e’

possibile,  sia  per  l’inidoneita’   dell’eventuale   estensione   a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perche’ la modalita’ dell’indennizzo  non

potrebbe essere definita “a rime obbligate” a causa della  pluralita’ di  soluzioni  normative  in  astratto  ipotizzabili  a  tutela   del principio della ragionevole durata del processo.

    4.1.- Per dar conto di tali ragioni di  inammissibilita’  occorre preliminarmente descrivere, seppur sinteticamente, il complesso delle modifiche apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012  alla  legge

n. 89 del 2001.

    Alcune di esse hanno riguardato  il  procedimento  attraverso  il quale riconoscere l’equa riparazione per  l’irragionevole  durata  e,

mantenendo la competenza della corte  d’appello  in  unico  grado  di merito, ora in composizione monocratica,  prevedono  che  la  domanda venga proposta e decisa su base documentale,  secondo  un  meccanismo

simile a quello del procedimento per decreto ingiuntivo (art. 3 della legge Pinto, come sostituito dall’art. 55, comma 1,  lettera  c,  del d.l.  n.  83  del  2012).  L’instaurazione  del  contraddittorio   e’ posticipata  alla  successiva  ed  eventuale  fase  di   opposizione, proposta dall’amministrazione  o  dal  ricorrente  insoddisfatto  (in tutto o in parte) della pronuncia, da svolgersi  davanti  alla  corte d’appello in composizione collegiale secondo  le  forme  semplificate del  procedimento  camerale  (art.  5-ter  della  legge  Pinto,  come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera  f,  del  d.l.  n.  83  del 2012). Il ricorso ad  un  procedimento  di  tipo  monitorio  e’  reso possibile dal fatto che la nuova normativa, rifacendosi in gran parte all’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e della  Corte  di cassazione, indica anche i  termini  entro  i  quali  la  durata  del processo non puo’ essere dichiarata irragionevole (art. 2,  commi  da

2-bis a 2-quater, della legge  Pinto,  come  aggiunti  dall’art.  55, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 83 del 2012)  e  la  misura dell’indennizzo per anno o frazione di  anno  superiore  a  sei  mesi eccedente il termine di ragionevole  durata  (art.  2-bis,  comma  1, della legge Pinto, come aggiunto dall’art. 55, comma  1,  lettera  b, del d.l. n. 83 del 2012).

    Ulteriori modifiche apportate dall’art. 55 del  d.l.  n.  83  del 2012 alla legge n. 89 del 2001 hanno dato rilievo  normativo  ad  una serie di circostanze incidenti sull’an (art. 2) e sul  quantum  (art. 2-bis) dell’indennizzo.

    In  particolare,  l’art.  2,  comma  2-ter,  della  legge   Pinto considera comunque rispettato il termine ragionevole di durata se  il giudizio  viene  definito  in  modo  irrevocabile  in  un  tempo  non superiore  a  sei  anni.  E’  evidente  che  la  norma  in  questione presuppone la conclusione del processo,  solo  all’esito  potendosene constatare la durata complessiva.

    Similmente, postulano la definizione del giudizio le  ipotesi  di esclusione dell’indennizzo contemplate dal  medesimo  art.  2,  comma 2-quinquies,  lettere  a)  (a  favore  della  parte  condannata   per cosiddetta “lite temeraria” a norma dell’art. 96 cod. proc. civ.), b) (nel caso di accoglimento  della  domanda  in  misura  non  superiore all’eventuale proposta conciliativa: art. 91,  primo  comma,  secondo periodo, cod. proc. civ.), c) (nel caso in cui il  provvedimento  che definisce il giudizio  corrisponda  interamente  al  contenuto  della

proposta  nella  mediazione  finalizzata  alla  conciliazione   delle controversie civili  e  commerciali:  art.  13,  primo  comma,  primo periodo, del  decreto  legislativo  4  marzo  2010,  n.  28,  recante «Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009,  n.  69,  in materia  di   mediazione   finalizzata   alla   conciliazione   delle controversie civili e commerciali») e d) (nel caso di estinzione  del reato per intervenuta  prescrizione  connessa  a  condotte  dilatorie della parte).

    Infine,   in   ordine   alla    determinazione    della    misura dell’indennizzo, l’art. 2-bis, comma 2, lettera a), della legge Pinto impone di tenere conto dell’esito del processo, mentre il  successivo comma 3 esclude che detta misura possa eccedere il valore della causa o quello del diritto accertato dal giudice, se  inferiore  al  primo.

Evidentemente, questi criteri possono operare solo  a  seguito  della conclusione del procedimento presupposto.

    Condizionando l’an ed il  quantum  dell’indennizzo,  l’art.  2  e l’art. 2-bis  della  legge  Pinto  –  rispettivamente  modificato  ed introdotto dall’art. 55 del d.l. n.  83  del  2012  –  finiscono  per

conformare  in  modo  peculiare  il  diritto  all’equa   riparazione, riconoscendolo solo all’esito, e non anche in pendenza, del  processo presupposto.

    Nel  descritto  contesto  normativo  i   meccanismi   indennitari introdotti dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 prevedono  condizioni irrealizzabili con riguardo  alla  fattispecie  di  cui  si  vorrebbe

parificare la disciplina.

    Quanto considerato preclude l’intervento additivo richiesto.

    In ogni caso, peraltro, esso non sarebbe “a  rime  obbligate”  in ragione della  pluralita’  di  soluzioni  normative  configurabili  a tutela del principio della ragionevole durata del processo.

    Occorre rammentare che «A partire dalle sentenze n. 348 e n.  349 del 2007, questa Corte ha costantemente ritenuto che “le norme  della CEDU – nel  significato  loro  attribuito  dalla  Corte  europea  dei diritti  dell’uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse interpretazione  ed  applicazione  (art.  32,  paragrafo   1,   della Convenzione)  –  integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro costituzionale espresso dall’art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”»  (sentenza  n.  264 del 2012).

    Ha chiarito la Corte EDU che «l’articolo 6 § 1 impone agli  Stati contraenti l’obbligo di organizzare i propri  sistemi  giudiziari  in modo tale che i loro giudici possano  soddisfare  ciascuno  dei  suoi requisiti,  compreso  l’obbligo  di  trattare  i  casi  in  un  tempo ragionevole […]. Laddove  il  sistema  giudiziario  e’  carente  in

questo senso, la soluzione piu’ efficace e’ quella  di  un  mezzo  di ricorso inteso a snellire il  procedimento  per  evitare  che  questo diventi eccessivamente lungo. Un  tale  mezzo  di  ricorso  offre  un innegabile vantaggio rispetto ad un mezzo  di  ricorso  che  fornisca solo un indennizzo, in quanto evita anche  di  constatare  violazioni successive rispetto al medesimo tipo di  procedimento  e  non  ripara meramente la violazione a posteriori come fa, ad esempio, il tipo  di mezzo di ricorso risarcitorio previsto dalla  legge  italiana.  […]

Appare inoltre chiaro che per i paesi dove esistono  gia’  violazioni legate alla durata del procedimento, un mezzo di  ricorso  inteso  ad accelerare il procedimento, per quanto  auspicabile  per  l’avvenire, potrebbe non essere adeguato a riparare  una  situazione  in  cui  il procedimento stesso e’ gia’ stato  palesemente  troppo  lungo.  […]

Diversi tipi di mezzo di ricorso possono riparare  la  violazione  in modo adeguato. […] Inoltre, taluni Stati […]  hanno  compreso  la situazione perfettamente, decidendo di combinare due tipi di mezzo di ricorso, uno volto a snellire il procedimento e l’altro a fornire  un indennizzo […]. Tuttavia, gli  Stati  possono  anche  scegliere  di introdurre solo dei mezzi di ricorso risarcitori, cosi’ come ha fatto l’Italia, senza  che  tale  mezzo  di  ricorso  non  sia  considerato effettivo» (Grande Camera, sentenza 29 marzo  2006,  Scordino  contro Italia).

    Sempre secondo la Corte EDU, «Quando uno  Stato  ha  compiuto  un passo significativo introducendo un rimedio  risarcitorio,  la  Corte deve lasciare allo Stato un margine di  valutazione  piu’  ampio  per  onsentirgli di organizzare il rimedio in un  modo  coerente  con  il proprio ordinamento giuridico […]»  e  «[…]  puo’  effettivamente avvenire che le regole di procedura applicabili non siano esattamente le stesse di quelle relative alle richieste ordinarie di risarcimento danni. Sta ad ogni Stato decidere, sulla base delle norme applicabili nel proprio sistema giudiziario, quale sia la procedura che  rispetti

al meglio il carattere obbligatorio di “effettivita’” […]»  (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia).

    Dunque,  la  Convenzione  accorda  allo  Stato   aderente   ampia discrezionalita’ nella scelta del  tipo  di  rimedio  interno  tra  i molteplici  ipotizzabili,  ma  nel  caso  in  cui  opti  per   quello risarcitorio,   detta    discrezionalita’    incontra    il    limite dell’effettivita’, che deriva dalla natura obbligatoria dell’art.  13

CEDU (Grande Camera, sentenza  29  marzo  2006,  Cocchiarella  contro Italia), secondo il quale: «Ogni persona  i  cui  diritti  e  le  cui liberta’ riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati,

ha diritto ad un ricorso effettivo  davanti  a  un’istanza  nazionale […]».

    E’ specificamente  sotto  tale  profilo  –  peraltro  oggetto  di censura da parte del  rimettente  –  che  il  rimedio  interno,  come attualmente disciplinato dalla legge Pinto, risulta carente. La Corte

EDU, infatti, ha ritenuto che il differimento dell’esperibilita’  del ricorso alla definizione  del  procedimento  in  cui  il  ritardo  e’ maturato ne pregiudichi l’effettivita’ e lo renda incompatibile con i requisiti al riguardo richiesti dalla Convenzione (sentenza 21 luglio 2009, Lesjak contro Slovenia).

    Il vulnus riscontrato e la necessita’ che l’ordinamento  si  doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione  della  ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni gia’ esposte –

la ritenuta inammissibilita’ della questione e se non pregiudicano la «priorita’ di valutazione da parte del legislatore  sulla  congruita’ dei mezzi per  raggiungere  un  fine  costituzionalmente  necessario»

(sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che  non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia (sentenza  n.

279 del 2013). per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE

 

    dichiara   inammissibile    la    questione    di    legittimita’ costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d),  del  decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita  del  Paese),

convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,  della  legge  7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest’ultimo  in  relazione

all’art.  6,  paragrafo  1,  della   Convenzione   europea   per   la salvaguardia dei diritti  dell’uomo  e  delle  liberta’  fondamentali (CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla  Corte  d’appello di Bari, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

    Cosi’ deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014.

 

                                F.to:

                    Gaetano SILVESTRI, Presidente

                       Aldo CAROSI, Redattore

                   Gabriella MELATTI, Cancelliere

 

    Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014.

 

                   Il Direttore della Cancelleria

                       F.to: Gabriella MELATTI

 

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