Corte di Cassazione n° 25141/08 – la tolleranza del locatore non produce l’effetto giuridico in ordine al mutamento di destinazione immobile realizzata dal conduttore -14.10.08. –

La Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto ha ribadito che : “il costante orientamento di questa Corte (ex multis Cass. 11055/2002) secondo il quale la mera tolleranza, o inerzia o acquiescenza dei locatori non costituisce comportamento idoneo a produrre effetti giuridici in ordine al mutamento di fatto della destinazione dell’immobile posta in essere dal conduttore perchè non consente di ravvisare la inequivoca, comune volontà derogatrice della clausola circa l’uso contrattuale originariamente previsto e convenuto.                

       

                                                        CORTE DI CASSAZIONE  

                                           Sez. III, Sent. del 14-10-2008, n. 25141

In data 12 giugno 1989 T.E., D.G. e T. A. intimavano a L. A. lo sfratto per finita locazione di un immobile locatogli il primo marzo 1977, per un anno, ad uso magazzino.
Il conduttore si opponeva deducendo che in base a regolare autorizzazione sindacale svolgeva sull’immobile attività di vendita all’ingrosso di acqua minerale ed olio commestibile e che la successiva scadenza del contratto era stata concordata al 31 dicembre 1991.
Il Pretore, con ordinanza del 26 febbraio 1990, rimetteva la causa al Tribunale, ma nessuna delle parti la riassumeva.  
I locatori, con citazione del 10 aprile 1990, chiedevano la risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore rappresentando che egli, dall’inizio, aveva mutato la destinazione dell’immobile da magazzino ad uso commerciale e chiedendone la condanna al risarcimento del danno per l’occupazione sine titulo del locale, da liquidare nella differenza tra il canone pagato e quello di mercato. Il L., pur ammettendo di aver preso in locazione l’immobile per adibirlo a magazzino, deduceva di averne mutato tale destinazione d’uso in esercizio di vendita all’ingrosso e al pubblico, come comprovato dalle licenze commerciali, con la tacita acquiescenza dei locatori poiché gli stessi erano entrati spesso nel locale constatando l’attività che vi si era svolta per oltre dieci anni, e conseguentemente erano decaduti dall’azione di risoluzione, ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 80, e si era prescritto il diritto alla percezione dei canoni richiesti.  
Il Tribunale di Roma, ritenuta l’inapplicabilità alla fattispecie della L. n. 392 del 1978, art. 80, e il non raggiungimento della prova della consapevolezza dei locatori della mutata destinazione d’uso dell’immobile perchè la frequentazione del locale da parte di terzi si svolge con modalità analoghe sia che esso sia adibito a deposito, sia a vendita all’ingrosso – e che neppure vi era prova della vendita dei prodotti al dettaglio, con contatto diretto con il pubblico dei consumatori – con sentenza del 26 ottobre 2000 dichiarava risolto il contratto per inadempimento del conduttore e lo condannava al rilascio del bene e al risarcimento dei danni per la protratta occupazione abusiva, che ragguagliava alla differenza tra il canone corrisposto e quello di mercato, liquidandoli in L. 10.200.000 all’anno – somma aggiornata nei limiti di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 32 – dalla domanda al rilascio.  P.I., in qualità di erede del L., interponeva appello principale reiterando sia le eccezioni di decadenza dei locatori dall’azione di risoluzione a norma della L. n. 392 del 1978, art. 80, essendo decorsi tre mesi da quando essi avevano avuto conoscenza del mutamento d’uso, e comunque un anno da questo, e la prescrizione del diritto al maggior canone locazione, sia la domanda di condanna degli stessi al pagamento dell’indennità di avviamento commerciale.
Gli appellati proponevano appello incidentale subordinato per l’ammissione di prova testimoniale sulla richiesta di altri di locare l’immobile.  
La Corte di appello di Roma respingeva il gravame ritenendo l’inconferenza della L. n. 392 del 1978, art. 80, in quanto tale norma trova applicazione nell’ipotesi in cui si verifichi, come conseguenza del mutamento di destinazione, la modifica del regime giuridico previsto dalla stessa L. del 1978, essendo volta ad evitare l’elusione della disciplina legale per le diverse tipologie di locazione, mentre nella fattispecie un locale affittato a magazzino era stato trasformato in esercizio commerciale, e perciò non era “configurabile un sostanziale mutamento del regime giuridico di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27 applicabile agli immobili in cui si svolgono le attività indicate dalla citata norma….”, con conseguente irrilevanza dell’eccepita decadenza; dall’altro sussisteva l’inadempimento del conduttore per aver mutato la destinazione del bene, essendo tale comportamento previsto come grave dal contratto (art. 2), sì che non erano rilevanti le prove testimoniali, ed in particolare quella del portiere, non potendosi desumere nessun consenso dei locatori dall’acquiescenza al mutamento dell’uso pattuito, nè essendo la risoluzione preclusa dalla loro inerzia, in mancanza di comportamenti univoci di loro volontà contraria, derogatrice della clausola circa l’uso contrattuale.  
Altresì da confermare era il risarcimento del danno dalla domanda di risoluzione al rilascio per occupazione sine titulo stante l’effetto retroattivo della relativa pronuncia, ed il criterio di liquidazione in base alla differenza tra il canone corrisposto ed il canone di mercato, sì che era inconferente l’eccezione di prescrizione del diritto alla corresponsione di maggiori canoni, mentre la prova del danno subito dal locatore per il mancato tempestivo rilascio atteneva all’eventuale maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., ma non era stato richiesto.
Avuto riguardo all’accertato inadempimento del conduttore quale causa di risoluzione del contratto, era inconsistente la doglianza per la mancata corresponsione dell’indennità di avviamento a norma della L. n. 392 del 1978, art. 69. Ricorre in via principale P.I. cui resistono T. e D., che hanno altresì proposto ricorso incidentale condizionato e depositato memoria.  

                                                          Motivi della decisione

1.- I ricorsi devono esser riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ..
2. – Pregiudiziale giuridica va riconosciuta al secondo motivo di ricorso principale con cui la ricorrente deduce: “Nullità della sentenza emanata o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, con riguardo anche all’art. 276 c.p.c.”. Il collegio dinanzi al quale è avvenuta la discussione della causa deve esser il medesimo che la decide. Il collegio del 19 settembre 1993 era diverso da quello che ha reso la sentenza impugnata.  
Il motivo è infondato. Dagli atti risulta che in data 13 settembre 2002, con decreto successivo alla chiusura della fase di trattazione in secondo grado, le cause già assegnate al relatore Redivo sono state assegnate alla relatrice Rando, e questa causa è stata discussa in data 19 settembre 2003 dinanzi al collegio formato dal Presidente Pietro Brignone, Componente Flora Fanara, e relatrice Adele Rando.
Pertanto è pienamente rispettato il principio secondo il quale l’immutabilità del giudice opera con esclusivo riferimento al momento di inizio della discussione e non vieta che quest’ultima si svolga dinanzi ad un collegio di cui fa parte un relatore diverso rispetto a quello che ha trattato la causa e dinanzi al quale sono state precisate le conclusioni (ex multis Cass. 8066 e 22658/2007).  
Pertanto il motivo va respinto.
3. – Con il primo motivo la ricorrente principale deduce: “Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., con riguardo agli artt. 115 116 e 1326 c.c., art. 1230 c.c., L. n. 392 del 1978, n. 27. Vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5”.
3.1- I giudici di primo e secondo grado non hanno correttamente e completamente valutato le risultanze istruttorie, con conseguente violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Il Tribunale infatti aveva affermato che, ai fini della richiesta indennità di avviamento commerciale, non esistevano le prove di esercizio nell’immobile di vendita al dettaglio comportante diretto contatto con il pubblico, svolgendo il conduttore attività di vendita all’ingrosso, e neppure del consenso, anche implicito, dei locatori al mutamento di destinazione, poiché era plausibile che essi non si fossero resi conto della diversa utilizzazione del locale destinato a deposito, considerato che questa attività comporta una frequentazione di terzi analoga a quella che è verificabile nel caso di esercizio di attività all’ingrosso. Invece le risultanze testimoniali hanno dimostrato che il L. ha adibito, fin dall’inizio della locazione, il locale a vendita all’ingrosso e al minuto e che i locatori ne erano al corrente ed avevano aderito a tale mutamento avendo anche acquistato i prodotti venduti dal conduttore; inoltre costui ha prodotto, in primo grado, l’autorizzazione all’esercizio di vendita all’ingrosso. I locatori invece non avevano fornito con certezza la prova di non aver avuto conoscenza della resale attività di vendita svolta dal conduttore nel locale anziché di utilizzo come semplice magazzino, secondo la pattuizione contrattuale di locazione (art. 2), non avendo in tal senso deposto i testi, dalle cui dichiarazioni era emerso che i locatori avevano acquistato i prodotti venduti dal conduttore, che avevano rapporti con chi comprava dal medesimo e che questi svolgeva da oltre dieci anni tale attività apertamente. Quindi i predetti non soltanto erano consapevoli del mutamento di destinazione, ma si era verificata una modifica e/o novazione oggettiva del contratto originario di cui era rimasto invariato il contenuto, correggendo la destinazione d’uso da magazzino in commerciale.
Perciò nessuna risoluzione per uso diverso a norma della L. n. 302 del 1978, art. 80, o per grave inadempimento contrattuale art. 1453 cod. civ., poteva esser pronunciata perchè per effetto del tacito consenso nessun inadempimento era imputabile al L., essendo le parti d’accordo sul nuovo uso, in tal modo rettificando e novando il contratto originario, con conseguente inesistenza della violazione di una disposizione contrattuale. Ed infatti, a norma dell’art. 1326 cod. civ., il contratto è concluso nel momento in cui la parte proponente ha avuto conoscenza dell’accettazione della controparte. Il L. ha palesato la sua volontà di modificare la disposizione contrattuale sulla proposta destinazione d’uso e tale proposta è stata accettata dai locatori che per dieci anni erano consapevoli dell’attività commerciale svolta, tant’è che non hanno intentato nessuna azione di risoluzione pur essendosi recati a vedere di persona l’attività svolta.  
Le censure sono parte inammissibili, parte infondate.
Ed infatti dapprima la ricorrente critica la valutazione delle prove effettuata dal giudice di primo grado mentre il controllo di legittimità può avere ad oggetto soltanto la sentenza di appello, a cui necessariamente devono riferirsi i motivi di ricorso.  Quindi, in relazione al prospettato accordo novativo del contratto originario sulla modifica dell’uso del locale rispetto a quello inizialmente pattuito, si limita a prospettare questa interpretazione del comportamento delle parti senza indicare le ragioni, logiche e giuridiche, di errata interpretazione dell’art. 1587 cod. civ., nella sentenza impugnata – la cui applicazione è conseguenza dell’esclusa rilevanza della L. n. 392 del 1978, art. 80 – e che si è conformata al costante orientamento di questa Corte (ex multis Cass. 11055/2002) secondo il quale la mera tolleranza, o inerzia o acquiescenza dei locatori non costituisce comportamento idoneo a produrre effetti giuridici in ordine al mutamento di fatto della destinazione dell’immobile posta in essere dal conduttore perchè non consente di ravvisare la inequivoca, comune volontà derogatrice della clausola circa l’uso contrattuale originariamente previsto e convenuto.  Perciò in questa prima parte le censure sono inammissibili.
Sono infondate invece nella seconda parte là dove le critiche si risolvono nell’addossare ai locatori l’onere di provare di non aver consentito la modifica dell’uso inizialmente convenuto, mentre tale prova è esclusivamente a carico del conduttore, e nel ritenere che a questo fine rileva l’autorizzazione ottenuta dal L. all’esercizio di vendita all’ingrosso, circostanza che invece non incide sul rapporto di natura privatistica tra conduttore e locatore, ed inidonea perciò a determinare un mutamento dell’uso convenzionale (Cass. 8942/1995).  
3.2- Sussiste comunque la violazione dell’art. 1414 c.c.. Dalle dichiarazioni testimoniali e dalla produzione della licenza sussiste la prova della simulazione sulla reale destinazione dell’uso del locale alla vendita al pubblico e all’ingrosso, con conseguente diritto del L. all’indennizzo per la perdita dell’avviamento commerciale.  
La censura è inammissibile. Ed infatti, poiché, dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della seconda parte della L. n. 392 del 1978, art. 80 (sentenza della Corte cost. n. 185 del 1988) là dove disponeva, quale termine ultimo di decadenza per la domanda di risoluzione “e comunque entro un anno dal mutamento di destinazione”, deriva che il principio della corrispondenza tra effettiva destinazione dell’immobile e regime giuridico applicabile al rapporto locatizio non può trovare applicazione in contrasto con la volontà negoziale del locatore relativa alla determinazione del tipo di locazione, per assumere rilevanza giuridica la non corrispondenza tra uso effettivo dell’immobile ed uso dichiarato nel contratto, è necessario che la simulazione relativa venga dedotta come causa pretendi fin dal primo grado (Cass. 15080/2000), mentre nella fattispecie emerge inequivocabilmente non solo dalla narrativa, ma anche dalla censura precedentemente riassunta in relazione alla dedotta novazione del contratto di locazione, che il conduttore ha posto a fondamento della domanda di applicazione del regime giuridico corrispondente all’uso effettivo dell’immobile il fatto della conoscenza e adesione del locatore al mutamento dell’uso del bene e non già l’accordo simulatorio con il medesimo sull’uso convenuto nel contratto stipulato, sì che, pur se la consapevolezza condivisa di entrambi i contraenti in ordine alla effettiva destinazione dell’immobile ad un uso diverso da quello indicato dal contratto può costituire prova dell’accordo simulatorio la rilevanza di esso e la conseguente dedotta censura per violazione delle norme sulla simulazione non può esser prospettata per la prima volta in questa sede. 3.3- Violazione della L. n. 392 del 1978, artt. 27 e 80.  
Il collegio ha ritenuto che nella fattispecie non si applichi la L. n. 392 del 1978, art. 80, perchè la trasformazione del locale magazzino in esercizio commerciale non configura un sostanziale mutamento del regime giuridico di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27, mentre invece tale modifica vi è stata perchè alla locazione di un magazzino non si applica la disciplina di cui all’art. 27 precitato, non trattandosi di attività commerciale in senso stretto, tant’è che la durata del contratto era stata prevista in un anno anzichè in sei, come stabilito dalla predetta norma, applicabile in relazione all’attività commerciale svolta dal L., che implica l’organizzazione di un’impresa, con conseguente applicazione alla fattispecie di diversa disciplina giuridica e della L. n. 392 del 1978, art. 80, che stabilisce la decadenza dei locatori dalla risoluzione.
La sentenza, come riassunto in narrativa, non ritiene applicabile alla fattispecie la L. n. 392 del 1978, art. 80, perchè ritiene che questa norma disciplini il passaggio dall’una all’altra tipologia locativa soltanto nell’ambito di quelle previste dalla L. n. 392 del 1978, art. 27, con conseguente mutamento del regime giuridico secondo l’uso effettivo, essendo la norma volta ad evitare la stipula di contratti elusivi della disciplina imperativa prevista dalla predetta legge, ma non oltre l’ambito della medesima e quindi non ritiene applicabile tale normativa a quelle locazioni residuali, non disciplinate dalla L. n. 392 del 1978, stipulate per il godimento di un bene non collegato con un’attività tutelata, come appunto nel caso di specie in cui il locale era stato locato, per la durata di un anno – e peraltro in data primo marzo 1977, e quindi prima dell’entrata in vigore della L. n. 392 del 1978 (30 luglio 1978) – per semplice uso di deposito o magazzino.  
L’affermazione si inserisce nell’alveo dell’indirizzo di legittimità più restrittivo secondo il quale la L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 80 – che, nel caso di unilaterale mutamento d’uso dell’immobile locato da parte del conduttore, prevede l’applicabilità del regime giuridico corrispondente all’uso effettivo se il locatore non si attivi entro il termine previsto per la risoluzione del contratto – si applica soltanto o nei casi di passaggio dall’uso abitativo a quello non abitativo (e viceversa) e non nei casi in cui l’immobile conservi la destinazione commerciale e vengano mutate soltanto le modalità dell’uso originario (Cass. 3892/1993), o alle attività contemplate negli artt. 27 e 42 della citata Legge, e quindi comunque soltanto se il passaggio da un uso all’altro importa una diversa disciplina del contratto di locazione nella legge dell’equo canone (Cass. 3310/1989, 5384/1991), mentre in ogni altra ipotesi di uso arbitrario dell’immobile, resta applicabile l’ordinaria disciplina prevista dal codice civile in materia di risoluzione del contratto per inadempimento di una delle obbligazioni principali del conduttore – servirsi della cosa per l’uso convenuto – da valutarsi alla stregua della ordinaria disciplina del codice civile (Cass. 6500/1987, 4753/2005), salvo che il locatore si avvalga, ai sensi dell’art. 1456 cod. civ., della clausola risolutiva espressa, nel qual caso il giudice – chiamato ad accertare l’avvenuta risoluzione del contratto per l’inadempimento convenzionalmente sanzionato – non è tenuto ad effettuare alcuna indagine sulla gravità dell’inadempimento stesso, giacchè le parti hanno preventivamente valutato che l’uso diverso dell’immobile locato comporta alterazione dell’equilibrio giuridico – economico del contratto.
La censura da un lato non critica questa interpretazione della norma, bensì l’assunto, che non è contenuto nella sentenza, come innanzi evidenziato, secondo cui dal mutamento dell’uso del locale da deposito ad esercizio commerciale non deriva un mutamento del regime giuridico applicabile; dall’altro non indica per quali ragioni giuridiche, anche alle locazioni residuali rispetto alla L. n. 392 del 1978, ed ancorchè stipulate per durata antecedente all’entrata in vigore della stessa, questa sia applicabile.  Pertanto la censura è inammissibile per violazione del principio di specificità di cui all’art. 366 cod. proc. civ., n. 4.
3.4- Ulteriormente i locatori hanno chiesto la risoluzione del rapporto per violazione dell’art. 2 del contratto perchè il locale doveva esser utilizzato esclusivamente come magazzino, mentre il conduttore l’aveva adibito ad attività commerciale, ma poichè l’applicazione della L. n. 392 del 1978, ad una locazione di un magazzino è consentita soltanto se esso è collegato ad un’attività commerciale, allora significa che al contratto non era applicabile questa disciplina per espressa volontà negoziale. Diversamente, se al contratto stipulato nel 1977 si applicasse la L. n. 392 del 1978, allora i locatori erano consapevoli delle implicanze commerciali della locazione e quindi non sussisteva nessun uso diverso perchè il contratto prevedeva un uso deposito e l’uso concreto è stato un deposito commerciale, collegato con l’attività esercitata dal conduttore, con conseguente applicabilità della L. n. 392 del 1978, e dell’art. 80 di essa.
La censura è inammissibile perchè non correlata a nessuna statuizione della sentenza impugnata diversa da quelle innanzi esaminate. 3.5- Sussiste poi la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per palese contraddittorietà e apparenza della motivazione. Infatti l’art. 2 del contratto stabilisce che il bene è concesso con la seguente esclusiva destinazione commerciale ed il portiere dello stabile ha dichiarato che da oltre dieci anni il L. vi aveva svolto attività commerciale e che i locatori ne erano consapevoli e quindi la testimonianza del medesimo non è irrilevante, ma se mai prova la simulazione sulla destinazione d’uso.  La censura è inammissibile per le ragioni esposte al paragrafo 3.2..
3.6- Quindi non sussiste neppure il diritto al risarcimento dei locatori e comunque sul rigetto del relativo motivo di appello la motivazione è contraddittoria e apparente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, avuto riguardo alla doglianza dell’appellante secondo cui sussisteva la prescrizione per la richiesta del maggior canone e a cui la Corte ha risposto che l’accertamento del diverso canone era uno dei parametri per liquidare i danni per l’indisponibilità dell’immobile dalla richiesta risoluzione del contratto al rilascio.  
La doglianza è infondata. Ed infatti la Corte di merito ha confermato la sentenza di primo grado che, per liquidare il danno derivato dall’aver il conduttore adibito l’immobile ad un uso non consentito, ha adottato come criterio la misura del canone di mercato per la locazione di un esercizio commerciale al fine di ristabilire, dalla domanda, l’equilibrio tra il corrispettivo ed il godimento dell’immobile secondo l’uso effettivo, alterato dall’unilaterale modifica dell’uso pattuito.  
3.7- Altrettanto inconferente è la motivazione in ordine al difetto di prova, sia per causa petendi, sia per petitum, del danno presumibile subito dai locatori per la dedotta abusiva occupazione, in relazione all’art. 414 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, avendo il conduttore contestato la causa petendi e dimostrato il tacito consenso dei locatori allo svolgimento dell’attività commerciale.
La censura è assorbita dalle considerazioni che precedono.  
4.- I ricorrenti incidentali in via condizionata impugnano la sentenza di appello per non aver ammesso la prova testimoniale articolata per provare il danno subito per non aver locato ad altri l’immobile ad un canone superiore.
Il motivo è inammissibile secondo il costante orientamento di questa Corte per il quale, in tema di giudizio di Cassazione, è inammissibile per carenza di interesse e di soccombenza, il ricorso proposto dalla parte che sia rimasta completamente vittoriosa nel giudizio di appello, proposto al solo scopo di risollevare questioni che non sono state decise dal giudice di merito avendole ritenute assorbite dalla statuizione adottata, atteso che tali questioni riprendono efficacia e vigore qualora sia cassata la sentenza di merito.  
5.- Concludendo il ricorso principale va respinto ed il ricorso incidentale condizionato va dichiarato inammissibile. 6.- Si compensano le spese del giudizio di Cassazione.  

                                                                    P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale condizionato.
Compensa le spese del giudizio di Cassazione.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2008

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