Corte Costituzionale Sentenza n° 20 – Avvocato e procuratore – Esami di abilitazione all’esercizio della professione – 30.01.09. –

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Avvocato e procuratore – Esami di abilitazione all’esercizio della professione – Obbligo di motivazione del punteggio numerico attribuito agli elaborati scritti – Mancata previsione – Lamentata lesione dei principi di effettivita’ della tutela giurisdizionale e del giusto processo sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali – Qualificazione della soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza come vero e proprio «diritto vivente» – Ammissibilita’ della questione. – Avvocato e procuratore – Esami di abilitazione all’esercizio della professione – Obbligo di motivazione del punteggio numerico attribuito agli elaborati scritti – Mancata previsione – Lamentata lesione dei principi di effettivita’ della tutela giurisdizionale e del giusto processo sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali – Esclusione – Non fondatezza della questione. – (GU n. 5 del 4-2-2009    

                                                       LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giovanni Maria FLICK; Giudici: Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO;

ha pronunciato la seguente Sentenza nei giudizi di legittimita’ costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, nella legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, nella legge 18 luglio 2003, n. 180 e degli artt. 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio-decreto 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), promossi con ordinanze del 5 maggio (nn. 2 ordinanze) e del 3 giugno 2008 dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, rispettivamente iscritte ai nn. 228, 229 e 261 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 30 e 37, 1ª serie speciale, dell’anno 2008.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella Camera di consiglio del 3 dicembre 2008 il giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto 1. –
Con tre distinte ordinanze, emesse il 5 maggio e il 3 giugno 2008, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento ha sollevato, con riferimento agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonche’ degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore) – disposizioni, queste ultime, da intendersi censurate nel testo vigente, quale risultante dalle modifiche e dalle sostituzioni di cui alla legge 27 giugno 1988, n. 242 (Modifiche alla disciplina degli esami di procuratore legale) e dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180 – nella parte in cui non prevedono l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame per l’abilitazione alla professione forense.
2. – Riferisce il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, in ciascuna delle ordinanze di rimessione, che, con sentenze non definitive, esso aveva respinto, all’esito dei giudizi di impugnazione delle valutazioni negative degli scritti redatti in sede di esami di abilitazione alla professione forense, sessione 2006/2007, due delle tre censure dedotte dai ricorrenti, fondate sulla denunciata violazione, da parte delle commissioni esaminatrici, dell’asserito obbligo di dare atto dell’effettiva applicazione dei criteri di valutazioni stabiliti in sede nazionale, dato che dagli artt. 22 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e 17-bis, 22, 23 e 24 del r.d. 23 gennaio 1934, n. 37 non emergerebbe un siffatto obbligo. Nell’esaminare la residuale, terza censura, con la quale era stato dedotto il difetto di motivazione dell’espresso giudizio alla luce della totale inidoneita’ ad esternarlo da parte del cosiddetto voto alfanumerico, il rimettente asserisce che, in base al consolidato indirizzo della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che fa propria la tesi della sufficienza del voto alfanumerico, tale censura avrebbe dovuto essere respinta.
3. – il rimettente, tuttavia, dubita della legittimita’ costituzionale della normativa in oggetto secondo la costante interpretazione della giurisprudenza del Consiglio di Stato. Sotto un primo profilo, infatti, la mera espressione alfanumerica di un giudizio, secondo il rimettente, non soddisferebbe l’esigenza di manifestare al candidato le ragioni della sua reiezione alle prove scritte, traducendosi soltanto nell’espressione di un valore relativo che si manifesta in termini matematici. Il rimettente si dichiara consapevole di quanto statuito, anche di recente, da questa Corte, con le ordinanze n. 466 del 2000, n. 419 e 420 del 2005 e, da ultimo, n. 28 del 2006, sull’inammissibilita’ di questioni analoghe a quella odierna, tese ad ottenere un avallo interpretativo, a causa dell’insussistenza in giurisprudenza di un vero e proprio «diritto vivente». Egli, tuttavia, reputa che, allo stato, tale giurisprudenza possa essere superata, visto che ogni diversa lettura dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sarebbe costantemente rigettata in sede d’appello dal Consiglio di Stato, il cui orientamento dovrebbe, quindi, essere ormai qualificato come diritto vivente. Una conferma si desumerebbe, sempre secondo il rimettente, dalla circostanza che, sebbene il decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, al suo art. 1-bis abbia introdotto alcuni criteri di valutazione delle prove d’esame in discussione, tale precetto non pare essere stato recepito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha statuito che neppure la predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove a posti di pubblico impiego puo’ essere considerata elemento imprescindibile ai fini della legittimita’ della procedura, trattandosi di attivita’ riservata alla discrezionalita’ dell’Amministrazione.
La questione dovrebbe essere riguardata, a parere del rimettente, alla luce dei precetti di cui agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, in associazione a quanto stabilito dall’art. 117, primo comma, della Costituzione.
Quanto al principio di effettivita’ della tutela giurisdizionale, il rimettente osserva che il Consiglio di Stato, con il parere 9 novembre 1995, n. 120 dell’Adunanza generale, aveva richiesto e ottenuto dal legislatore la modifica dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. 9 agosto 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalita’ di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), avvenuta con d.P.R. 30 ottobre 1996, n. 693 (Regolamento recante modificazioni al regolamento sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e sulle modalita’ di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nel pubblico impiego, approvato con d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487). In tal modo, tramite la sostituzione dell’espressione «assegnazione del punteggio» a quella preesistente, avrebbe determinato l’espunzione dal tessuto dell’ordinamento dell’unica disposizione in grado di positivamente infirmare la teoria del voto alfanumerico. Tale riforma sarebbe stata, secondo il rimettente, ispirata a valorizzare i principi, oltre che d’imparzialita’, di economicita’ e di celerita’ di espletamento delle procedure concorsuali, nonche’ di buon andamento stabiliti dall’art. 97 della Costituzione.
Al rimettente pare, tuttavia, che in tale riforma e nel successivo orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, sia stata trascurata la diversa, ma non meno rilevante esigenza della trasparenza dei giudizi formulati dalle Commissioni esaminatrici e che sia stato violato il diverso principio tratto dai richiamati artt. 24, primo e secondo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, che altrettanto puntualmente proclamano il principio di effettivita’ della tutela giurisdizionale. L’affermazione che il voto alfanumerico sia espressione sintetica, ma completa, del giudizio, sarebbe insoddisfacente, dato che, sulla base di un voto alfanumerico, sarebbe impedito il successivo svolgimento di un giusto processo, data la preclusione di ogni potenziale verifica degli eventuali vizi della motivazione.
Per altro verso, secondo il rimettente, l’art. 22, comma 9, del r.d. n. 1578 del 1933, come modificato dal d.l. n. 112 del 2003 e dalla sua legge di conversione, stabilisce che «la commissione istituita presso il Ministero della giustizia definisce i criteri per la valutazione degli elaborati scritti» che devono essere comunicati alle varie Sottocommissioni; fra tale criteri, devono comunque essere sempre presenti i seguenti:
a) chiarezza, logicita’ e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacita’ di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacita’ di cogliere eventuali profili di interdisciplinarieta’;
e) relativamente all’atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione. Cio’ offrirebbe un’ulteriore conferma alla dedotta censura, dato che la norma in questione sarebbe priva di significato in mancanza di un obbligo di motivazione dei giudizi formulati sugli elaborati dei candidati.
Le norme censurate, interpretate in base al «diritto vivente» elaborato negli anni dal Consiglio di Stato, precluderebbero, inoltre, ogni diritto di difesa dato che il giudizio negativo espresso nei confronti di un soggetto, non sarebbe verificabile neppure sotto l’angusto profilo della sua motivazione: cio’ che determinerebbe una violazione del principio di effettivita’ della tutela giurisdizionale, consacrato, secondo il rimettente, anche nel principio del «giusto processo» di cui all’art. 111, primo e secondo comma della Costituzione.
La questione appare al rimettente non manifestamente infondata anche alla luce dell’art. 117, primo comma della Costituzione, posto che tale norma farebbe obbligo allo Stato di esercitare la potesta’ legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi internazionali.
La violazione delle regole del giusto processo e del principio della sua effettivita’, invero, determinerebbe, in base a quanto statuito da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, a cui e’ stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonche’ del suo Protocollo addizionale firmato a Parigi il 20 marzo 1952.
ù4. – E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, con tre distinti atti di intervento, deducendo l’inammissibilita’ del ricorso, per l’inesistenza del diritto vivente descritto dal rimettente e sostenendo in ogni caso, nel merito, l’infondatezza dello stesso.
Quanto al primo aspetto, la difesa erariale sottolinea come questa Corte, in ben quattro pronunce, abbia gia’ evidenziato la mancanza di un orientamento consolidato del Consiglio di Stato e dei TAR qualificabile come «diritto vivente», attesa la eterogeneita’ delle soluzioni interpretative offerte in giurisprudenza.
Nel merito, l’Avvocatura ricorda che l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), nel prevedere il generale obbligo di motivazione, si riferisce all’attivita’ amministrativa provvedimentale e non a quella conseguente a una valutazione tecnica, qual e’ quella relativa alla preparazione del candidato. Soggiunge che il voto in tale circostanza non rappresenterebbe una sorta di dispositivo di cui occorra fornire la motivazione, ma esprime esso stesso, in forma sintetica, la valutazione compiuta dalla commissione esaminatrice nell’apprezzamento delle singole prove e nella loro reciproca comparazione. Ne’, prosegue l’Avvocatura, la situazione puo’ ritenersi alterata dall’introduzione dell’art. 11, comma 5, del d.lgs. 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonche’ in materia di coadiutori notarili in attuazione dell’articolo 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246, in materia di concorso notarile), in base al quale il giudizio di non idoneita’ e’ motivato, mentre nel giudizio di idoneita’ il punteggio vale motivazione. La diversita’ di normativa sarebbe giustificata dal fatto che il concorso notarile, a differenza dell’esame di abilitazione, sarebbe una procedura concorsuale a numero chiuso, fondata sul necessario raffronto comparativo tra i candidati. L’Avvocatura poi ricorda la recente decisione del Consiglio di Stato, in relazione al concorso per uditore giudiziario, con la quale e’ stato affermato che non e’ configurabile un interesse giuridico del candidato a conoscere il grado di insufficienza delle proprie prove, atteso che «nell’ambito dell’insufficienza, le norme non assegnano all’uno o all’altro voto alcun effetto».
Quanto alla deduzione in base alla quale la espressione numerica del giudizio non consentirebbe al candidato di comprendere dove abbia sbagliato, onde poter ritentare l’esame di abilitazione, l’Avvocatura osserva che la valutazione della commissione non ha scopi didattici; aggiungendo che tale forma sintetica di motivazione garantirebbe il rispetto dei principi costituzionali di efficienza, economia, efficacia e speditezza su cui deve fondarsi l’azione amministrativa, dovendosi ritenere che l’attivita’ di correzione sarebbe notevolmente rallentata se la commissione dovesse esprimere dei giudizi articolati in luogo dei voti. L’idoneita’ del voto a racchiudere in se’ un giudizio sintetico renderebbe, pertanto, priva di fondamento la tesi del Tribunale amministrativo rimettente dell’asserita violazione del principio di effettivita’ della tutela giurisdizionale e di garanzia del giusto processo, sia per quanto attiene alla censura relativa all’art. 24, Cost., sia per quella relativa all’art. 111, Cost., sia infine per quella relativa all’art. 117, primo comma, Cost.
Considerato in diritto
1. – il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento dubita, con riferimento agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimita’ costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, d.l. 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonche’ degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), nella parte in cui non prevedono l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame per l’abilitazione alla professione forense. Il vigente sistema di valutazione, fondato sulla attribuzione di un punteggio alfanumerico compreso tra 1 e 10, viene contestato nella parte in cui, secondo un’interpretazione giurisprudenziale qualificata dal rimettente in termini di diritto vivente, non prevederebbe (implicitamente anche) la necessita’ di una motivazione del punteggio attribuito agli elaborati scritti.
L’odierno incidente di costituzionalita’ ha ad oggetto, da un lato, gli artt. 17-bis, 22, 23, e 24, 1 comma, del regio decreto 22 gennaio 1934 n. 37, come modificato dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 convertito in legge (…), che dettano la disciplina e il contenuto delle prove (scritte e orali) cui sono sottoposti gli aspiranti avvocati, prevedendo, tra l’altro, che all’esito della correzione degli elaborati scritti la sottocommissione esprima un punteggio numerico tra 1 e 10 per ciascuna prova scritta; e, dall’altro, la disposizione di cui all’art. 22 del r.d.l. n. 1578 del 1933, come riformato dal decreto-legge n. 112 del 2003, che pone a carico della Commissione esaminatrice nazionale l’obbligo di definire, per tutte le Corti di appello, dei criteri uniformi per la valutazione degli elaborati scritti.
Le norme predette, nell’odierno giudizio costituzionale, vengono ritenute in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, per la lesione del principio di effettivita’ della tutela giurisdizionale, in ambito generale e amministrativo; con il principio del «giusto processo», enunciato dall’art. 111 della Costituzione e, infine, per il tramite dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, con i medesimi principi di effettivita’ della tutela giurisdizionale e del giusto processo, consacrati nella Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle liberta’ fondamentali.
2. – I giudizi, avendo ad oggetto le medesime norme, denunciate in riferimento agli stessi parametri e con argomentazioni identiche, vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia.
3. – La questione e’ ammissibile. Questa Corte, in plurime decisioni, ha sinora escluso che la tesi dell’insussistenza, nell’ordinamento vigente, di un obbligo di motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione e della idoneita’ degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida motivazione del provvedimento di inidoneita’ costituisse una interpretazione obbligata e univoca della normativa vigente (ordinanze n. 466 del 2000, n. 233 del 2001, n. 419 del 2005 e, da ultimo, n. 28 del 2006). Tuttavia, nella piu’ recente evoluzione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, tale tesi si e’ ormai consolidata, privando la tesi minoritaria, ancora adottata in alcune isolate pronunce, di ogni concreta possibilita’ di definitiva affermazione giurisprudenziale. Questa Corte deve quindi prendere atto della circostanza che la soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza costituisce ormai un vero e proprio «diritto vivente».
4. – Nel merito, la questione non e’ fondata. Gli articoli 24 e 113, Cost., enunciano il principio dell’effettivita’ del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione. Entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis, le sentenze n. 182 del 2008, nn. 180, 181, 282, 420 del 2007, n. 101 del 2003 e n. 419 del 2000). A sua volta, il principio del giusto processo, consacrato nell’art. 111, Cost., e’ finalizzato ad assicurare che gli strumenti procedurali vigenti pongano accusa e difesa in una posizione di parita’ e offrano idonea tutela ai diritti sostanziali su cui si controverte nel processo, attraverso la piena attuazione del principio del contraddittorio, del principio di ragionevole durata del procedimento, della motivazione della decisione. Anche in tal caso si tratta di garanzie di carattere esclusivamente processuale. Gli stessi principi di effettivita’ del diritto di difesa e del giusto processo sono espressi anche nella «Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle liberta’ fondamentali» con esclusivo riferimento al piano processuale. Per converso, la denunciata illegittimita’ costituzionale della norma che, in base al diritto vivente, non impone alla commissione una specifica modalita’ di motivazione delle determinazioni da essa assunte in merito alle prove scritte ed orali, concerne un momento del procedimento amministrativo che disciplina lo svolgimento degli esami per l’abilitazione alla professione forense. Essa, quindi, riguarda il profilo sostanziale dei requisiti di validita’ del provvedimento di esclusione del candidato, conclusivo di detto procedimento.
L’aspetto processuale degli strumenti predisposti dall’ordinamento per l’attuazione in giudizio dei diritti non e’ chiamato in gioco dalla norma, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo. La disciplina censurata non e’ quindi idonea a interferire ne’ con il diritto di difesa ne’ con il principio del contraddittorio e si sottrae all’ambito di applicazione dei parametri invocati dal rimettente.

Per questi motivi

                                                       LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi; Dichiara non fondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonche’ degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), sollevata, in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con le ordinanze indicate in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede dalla Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009. Il Presidente: Flick
Il redattore: Mazzella  

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