Corte Costituzionale – Ordinanza – 2 marzo 2007 n ° 63 –
Corte Costituzionale, Ordinanza depositata in data 02.03.07 n° 63 – Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Processo penale – Procedimento dinanzi al Giudice di Pace – Dibattimento – Pronuncia di esclusione della procedibilita’ nei casi di particolare tenuita’ del fatto – Consenso dell’imputato e della parte offesa – Necessita’ – Lamentata lesione del principio di soggezione del giudice solo alla legge ed eccesso di delega – Dedotta ingiustificata disparita’ di trattamento tra imputati maggiorenni e imputati minorenni, con violazione del diritto di difesa nonche’ dei principi del giusto processo e dei principi della meritevolezza e proporzionalita’ della pena – Erroneita’ del presupposto interpretativo e conseguente inadeguatezza della motivazione sulla rilevanza della questione – Manifesta inammissibilita’. – D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 34, comma 3. – Costituzione, artt. 3, 24, 27, 76, 101 e 111. (GU n. 10 del 7-3-2007 ) LA CORTE COSTITUZIONALE
Presidente: Franco BILE;
ha pronunciato la seguente Ordinanza
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 3,
del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma dell'art. 14 della
legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso con ordinanza del
14 ottobre 2004 dal Giudice di pace di Napoli nel procedimento penale
a carico di F. V., iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2005 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, 1ª serie
speciale, dell'anno 2005.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella Camera di consiglio del 7 febbraio 2007 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice di
pace di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 76,
101 e 111 della Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 34, comma 3, del decreto legislativo
28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del
giudice di pace, a norma dell'art. 14 della legge 24 novembre 1999,
n. 468), nella parte in cui, nel procedimento penale davanti al
giudice di pace, "subordina al consenso dell'imputato e della parte
offesa la pronunzia, all'esito del dibattimento, della sentenza di
esclusione della procedibilita' nei casi di particolare tenuita' del
fatto"; ovvero "non precisa che il consenso delle parti private e'
richiesto solo per la sentenza predibattimentale all'esito del
tentativo di conciliazione da esperire obbligatoriamente da parte del
giudice di pace nell'udienza di comparizione";
che il giudice a quo premette di procedere nei confronti di
persona imputata - a seguito di duplice querela della persona offesa
- dei reati continuati di cui agli artt. 594, 612 e 582 del codice
penale, per avere ingiuriato, minacciato e colpito con una bottiglia
di plastica piena d'acqua il querelante, provocandogli lesioni al
viso guarite in dieci giorni;
che i fatti si erano verificati dopo che l'imputato aveva
inutilmente invitato il querelante, che stava eseguendo lavori di
ristrutturazione nell'appartamento soprastante, a non provocare
eccessivi rumori, i quali recavano disturbo alla propria moglie,
malata di cancro in fase terminale e deceduta poco tempo dopo;
che il querelante non si era costituito parte civile, ma
aveva, anzi, "di fatto abbandonato il giudizio": comportamento che -
secondo il rimettente - nella fase processuale, non configurava
remissione tacita della querela; e nessun tentativo di conciliazione
delle parti aveva potuto essere inoltre esperito, in quanto la
persona offesa si era allontanata dal luogo di residenza anagrafica,
rendendosi irreperibile;
che, cio' premesso, il giudice a quo rileva come
sussisterebbero, nella specie, tutte le condizioni previste
dall'art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, ai fini della
pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per la particolare
tenuita' del fatto;
che il danno provocato all'interesse protetto risulterebbe,
infatti, assai limitato, stante la ridotta entita' delle lesioni
riportate dal soggettivo passivo; cosi' come esiguo sarebbe il grado
della colpevolezza, trattandosi di dolo d'impeto, originato
dall'ingiusto rifiuto dell'offeso di eseguire i lavori in forma meno
rumorosa e dall'affectio coniugalis; mentre ricorrerebbero, altresi',
le ulteriori condizioni dell'occasionalita' del comportamento e
dell'attitudine della eventuale condanna, ancorche' a mera pena
pecuniaria, a recare pregiudizio alla vita di relazione
dell'imputato, "cittadino dalla condotta normale";
che alla pronuncia dell'anzidetta sentenza sarebbe tuttavia
di ostacolo la previsione del comma 3 dell'art. 34 del d.lgs. n. 274
del 2000, in forza della quale, dopo l'esercizio dell'azione penale,
"la particolare tenuita' del fatto puo' essere dichiarata con
sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non si oppongono";
che - ad avviso del rimettente - tale disposizione
sembrerebbe riferita, prima facie, ad un preciso stadio del processo
davanti al giudice di pace, in rapporto al quale "la volonta' delle
parti private e' decisiva" (donde la mancata menzione del pubblico
ministero): vale a dire all'udienza di comparizione, nel corso della
quale il, prima dell'apertura del dibattimento, promuove la
conciliazione tra le parti (art. 29 del d.lgs. n. 274 del 2000);
che, tuttavia, dalla relazione governativa al d.lgs. n. 274
del 2000 emergerebbe chiaramente che il legislatore ha configurato
l'istituto previsto dall'art. 34 come una condizione di
procedibilita', considerando la non opposizione della persona offesa
come "il pendant del suo interesse ad ottenere una sentenza" -
interesse che non potrebbe "essere estromesso una volta che vi sia
stato l'esercizio dell'azione penale" - e riconoscendo altresi'
all'imputato il potere di rinunciare alla causa di improcedibilita'
in vista di un esito piu' favorevole nel merito;
che risulterebbe dunque certo - sempre secondo il rimettente
- che, nel giudizio, il mancato consenso dei soggetti privati sia
ostativo alla definizione del procedimento ai sensi dell'art. 34; e
che, inoltre, il predetto consenso non possa essere desunto per facta
concludentia - come invece nella fase delle indagini preliminari, in
rapporto alla diversa previsione del comma 2 dello stesso articolo -
ma debba essere manifestato in forma espressa;
che tale soluzione normativa si paleserebbe peraltro lesiva
di plurimi parametri costituzionali;
che la scelta di configurare l'istituto della particolare
tenuita' del fatto come una condizione di procedibilita' risulterebbe
difatti irragionevole, trasformandolo in un inutile doppione della
remissione della querela: detto istituto avrebbe, in realta', natura
sostanziale e non processuale, costituendo "una formula definitoria
autonoma", dichiarativa dell'estinzione del reato o della
punibilita';
che, in tale ottica, la subordinazione della pronuncia
prevista dall'art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 al consenso
dell'imputato e della persona offesa, dopo l'apertura del
dibattimento, violerebbe l'art. 101 Cost., in forza del quale il
giudice e' soggetto soltanto alla legge: il parametro costituzionale
evocato impedirebbe, infatti, di riconoscere all'imputato - una volta
aperto il dibattimento - il potere di opporsi alla definizione del
processo ritenuta idonea dal giudice, la quale dovrebbe essere
autonomamente adottata sulla base delle risultanze processuali, in
ossequio al principio del libero convincimento, potendo l'imputato
dolersi della declaratoria della particolare tenuita' del fatto -
nella prospettiva di ottenere una pronuncia piu' favorevole nel
merito - unicamente tramite l'esercizio del diritto di impugnazione;
che altrettanto irrazionale risulterebbe la previsione del
necessario consenso della persona offesa, giacche' quest'ultima e la
parte civile sarebbero titolari, nel processo penale, della sola
pretesa civilistica al risarcimento del danno: pretesa che non
verrebbe pregiudicata dalla sentenza di non luogo a procedere per la
particolare tenuita' del fatto, in quanto non preclusiva - al pari di
tutte le sentenze che dichiarano l'estinzione del reato -
dell'esercizio dell'azione risarcitoria;
che non varrebbe evocare, in senso contrario, il potere della
persona offesa di rimettere la querela in qualunque stato del
processo, con il solo limite dell'irrevocabilita' della sentenza, e
quello dell'imputato di accettare la remissione: giacche' - posto che
i reati perseguibili a querela costituiscono comunque un "numerus
clausus" - nell'esercizio degli anzidetti poteri, la persona offesa e
l'imputato operano esclusivamente "una valutazione di opportunita',
sulla base dei loro interessi";
che la norma censurata, per converso, demanderebbe "in modo
abnorme" alla persona offesa la valutazione dello stesso fatto-reato,
riconoscendo, altresi', all'imputato un altrettanto abnorme diritto
di "veto" della decisione del giudice: decisione che, nel nostro
ordinamento, non sarebbe mai condizionata dalla volonta' delle parti,
neppure nel caso di applicazione della pena su richiesta (art. 444
del codice di procedura penale), la quale lascia salvo il potere del
giudice di rigettare la richiesta stessa qualora debba essere
pronunciata sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 cod.
proc. pen., nonche' nel caso in cui la pena concordata non appaia
congrua;
che sarebbe inoltre compromesso l'art. 76 Cost., sotto il
profilo dell'eccesso di delega;
che l'art. 17, comma 1, lettera f), della legge 24 novembre
1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante
istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di
competenza penale del giudice di pace e modifica dell'art. 593 del
codice di procedura penale), prevedeva, infatti - nell'ambito dei
principi direttivi della delega legislativa al Governo in materia di
competenza penale del giudice di pace - l'"introduzione di un
meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare
tenuita' del fatto e di occasionalita' della condotta, quando
l'ulteriore corso del procedimento puo' pregiudicare le esigenze di
lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta
ad indagini o dell'imputato";
che la norma di delega non conteneva, dunque, alcun
riferimento al requisito del consenso dell'imputato e della persona
offesa, il quale sarebbe stato introdotto sua sponte dal legislatore
delegato, con scelta la cui irrazionalita' emergerebbe, peraltro,
anche dal confronto con l'art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, il
quale consente al giudice di pace di dichiarare estinto il reato a
seguito di condotte riparatorie dell'imputato, valutando la
congruita' di tali condotte a prescindere dalla richiesta o
dall'assenso delle parti;
che risulterebbe violato, ancora, l'art. 3 Cost., a fronte
dell'evidente disparita' di trattamento tra imputati maggiorenni e
imputati minorenni, giacche' ai sensi dell'art. 27 del d.P.R.
22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul
processo penale a carico di imputati minorenni) - costituente il
modello ispiratore della norma impugnata - nel processo minorile la
declaratoria di irrilevanza del fatto resta svincolata dal consenso
tanto della parte pubblica che della persona offesa;
che, sebbene il favor minoris costituisca un principio
fondamentale dell'ordinamento, di rango costituzionale, non potrebbe
ammettersi una disparita' di trattamento di tale portata a sfavore
dell'imputato maggiorenne, che vede subordinata la decisione del
giudice al consenso della persona offesa: e cio' tenuto conto anche
del fatto che, mentre l'art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988 e'
applicabile ad una vasta gamma di reati, sono invece suscettibili di
venir definiti ai sensi dell'art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000
unicamente i processi relativi alle limitate fattispecie criminose
devolute alla competenza del giudice di pace;
che la norma denunciata lederebbe anche l'art. 24 Cost.,
giacche' i poteri difensivi tanto della persona offesa che
dell'imputato verrebbero ad essere limitati "da reciproci consensi,
quasi non si trattasse di un processo penale tendente
all'accertamento della verita' sul fatto-reato, ma di un contenzioso
civilistico da definire sulla base di accordi transattivi";
che sarebbe vulnerato, poi, l'art. 111 Cost., in quanto la
terzieta' del giudice - da intendere quale indipendenza dalle parti e
come discrezionalita' della decisione - rimarrebbe condizionata dalla
necessita' del consenso delle parti medesime;
che risulterebbe violato, infine, l'art. 27 Cost., giacche'
il giudice di pace - nel giudicare un fatto che, pur sussistendo
nella sua materialita', ha arrecato un danno minimo - sarebbe
costretto, nel caso di mancato consenso, a pronunciare una sentenza
di condanna, sia pure a pena pecuniaria, in contrasto con i principi
"della meritevolezza e della proporzione della pena", i quali
costituiscono i presupposti essenziali affinche' quest'ultima possa
svolgere la sua funzione rieducativa e non spinga viceversa l'autore
del fatto - che si sente ingiustamente condannato - ad ulteriori
violazioni delle norme penali;
che nel giudizio di costituzionalita' e' intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o infondata;
che la difesa erariale rileva, in particolare, che -
contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente - l'art. 34,
comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000 condiziona, nella fase
dibattimentale, la pronuncia di esclusione della procedibilita' per
la particolare tenuita' del fatto, non gia' al consenso, ma alla mera
mancata opposizione dell'imputato e della persona offesa: mancata
opposizione che - tenuto conto anche della ratio della norma,
palesemente rivolta alla deflazione processuale - si configurerebbe
ove i predetti soggetti non partecipino ingiustificatamente al
giudizio;
che, di conseguenza, la questione sollevata sarebbe
irrilevante nel processo a quo, giacche' la persona offesa, sebbene
ritualmente citata a giudizio, non ha mai partecipato allo stesso e
non vi e' stata, pertanto, alcuna sua opposizione alla declaratoria
di improcedibilita' per irrilevanza del fatto;
che la motivazione dell'ordinanza di rimessione circa la
rilevanza della questione si paleserebbe comunque insufficiente,
giacche' il giudizio circa la tenuita' del danno e il grado di
colpevolezza risulterebbe formulato dal rimettente con esclusivo
riferimento al reato di lesioni volontarie, e non anche in rapporto
agli ulteriori, ripetuti fatti di ingiuria e minaccia oggetto di
contestazione, ovvero al loro complesso; mentre l'occasionalita' del
comportamento e il pregiudizio alla vita di relazione dell'imputato
nell'ulteriore corso del procedimento risulterebbero affermati in
modo del tutto apodittico;
che la questione sarebbe, in ogni caso, infondata nel merito,
in rapporto a tutti i parametri costituzionali evocati.
Considerato che, nel dubitare della legittimita' costituzionale
dell'art. 34, comma 3, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, il giudice
rimettente muove dal dichiarato presupposto interpretativo in forza
del quale la norma censurata condizionerebbe, nella fase
dibattimentale, la pronuncia di esclusione della procedibilita' per
particolare tenuita' del fatto al "consenso" dell'imputato e della
persona offesa: "consenso" che, d'altra parte, non potrebbe essere
neppure desunto dal giudice per facta concludentia, ma andrebbe
manifestato dagli interessati in forma espressa;
che tale presupposto interpretativo - come rilevato anche
dall'Avvocatura dello Stato - si presenta, tuttavia, palesemente
contrario al tenore letterale della disposizione sottoposta a
scrutinio, la quale prevede, ai fini dell'operativita' dell'istituto
de quo nella fase successiva all'esercizio dell'azione penale, non
gia' una condizione positiva (il "consenso"), ma una condizione
negativa (la non opposizione: "se l'imputato e la persona offesa non
si oppongono");
che, in base alla chiara lettera della legge, dunque, una
manifestazione di volonta' e' necessaria non gia' al fine di
permettere la dichiarazione della particolare tenuita' del fatto,
quanto piuttosto al fine di impedirla: con la conseguenza che, ove
quest'ultima manifestazione di volonta' manchi, detta dichiarazione
deve ritenersi ammissibile;
che il richiamo alla relazione governativa al d.lgs. n. 274
del 2000, operato dal rimettente onde fondare il proprio contrario
assunto interpretativo, si rivela privo di qualsiasi valenza
dimostrativa; da detta relazione emergono, infatti, le ragioni che
hanno indotto il legislatore delegato a riconoscere, in materia, uno
specifico rilievo alla volonta' dell'imputato e della persona offesa
- ragioni sinteticamente ricordate nella stessa ordinanza di
rimessione - ma non si desume affatto che il legislatore medesimo sia
incorso in una improprieta' linguistica e concettuale quale quella
che il giudice a quo nella sostanza gli addebita: improprieta'
consistente nell'impiego di una formula negativa ("se [...] non si
oppongono") per indicare l'esigenza di un comportamento positivo, per
giunta esplicito ("se [...] vi consentono espressamente");
che l'evidenziato vizio di prospettiva del giudice rimettente
inficia, quindi - prima e piu' ancora della motivazione sulla non
manifesta infondatezza della questione - la motivazione in ordine
alla sua rilevanza, rendendola del tutto inadeguata;
che l'ordinanza di rimessione - pur coinvolgendo nelle
censure di costituzionalita' anche il potere di "veto" riconosciuto
all'imputato - tace infatti completamente sull'atteggiamento
concretamente assunto, al riguardo, dall'imputato nel giudizio a quo,
non specificando se egli si sia opposto alla dichiarazione di
improcedibilita' per la particolare tenuita' dei fatti contestatigli;
che per quanto attiene, poi, alle censure relative
all'omologo potere della persona offesa, il rimettente fa discendere
(implicitamente) la rilevanza della questione dalla circostanza che,
nella specie, il querelante abbia disertato completamente il
processo, rendendosi irreperibile, e non abbia quindi prestato il suo
"consenso" alla definizione del processo medesimo ai sensi
dell'art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000;
che tale approccio si palesa peraltro errato, giacche', nella
situazione considerata, il rimettente avrebbe dovuto chiedersi non
gia' se la persona offesa avesse consentito, quanto piuttosto se essa
si fosse o meno opposta alla predetta definizione alternativa;
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente
inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 3, del
|